Covid-19 in Italia: perché la sociologia dovrebbe contare

Giampietro Gobo ed Enrico Campo
Università di Milano

La recente diffusione, a livello mondiale, di un nuovo Coronavirus è una rilevante questione di salute pubblica. Essa però pone problemi che esulano dal semplice ed esclusivo ambito virologico ed epidemiologico, per cui diviene necessario mobilitare saperi che afferiscano anche ad altre matrici disciplinari. Da questo punto di vista, il modo in cui è stata affrontata l’emergenza sanitaria Covid-19 in Italia, ma probabilmente anche in altri Paesi europei, mostra quanto il ruolo dei sociologi di varie specializzazioni (sociologia della salute, della scienza, dell’ambiente, dell’organizzazione, economica, dei media ecc.) sarebbe importante nella gestione di un problema così complesso e articolato come una pandemia. Nonostante ciò, sin dall’inizio la diffusione del Covid-19, l’epidemia è stata presentata come una questione esclusivamente virologica ed epidemiologica, e si è preferito adottare un approccio mono-disciplinare piuttosto che interdisciplinare: gli esperti, membri sia del comitato tecnico-scientifico nazionale (di supporto al Governo) che di quelli regionali (di supporto ai Governatori), sono stati reclutati quasi esclusivamente fra i medici. Certamente non fra gli psicologi, economisti, sociologi o antropologi. Eppure, la diffusione del Covid-19 non è solo una questione virale o clinica, e pone problemi che oltrepassano l’ambito strettamente medico (che rimane, ovviamente, centrale). La scelta di seguire un approccio mono-disciplinare e virologico ha probabilmente portato in dote una prospettiva riduzionista, e quindi a implementare politiche che hanno significativamente sottostimato gli aspetti economici, relazionali, organizzativi, psicologici; senza far tesoro delle esperienze e studi precedenti (come ad esempio quelli relativi alle politiche di contrasto all’AIDS) che avevano mostrato come il benessere collettivo e la salute non siano di pertinenza soltanto dei medici, ma al contrario riguardino tutti (Epstein 1996).

Nell’adozione delle misure legate al nuovo Coronavirus, il contributo di altri esperti e scienziati non-medici avrebbe probabilmente potuto evitare diversi errori che hanno, in alcuni casi, aumentato la diffusione del virus. Ad esempio un esperto di mass-media (se fosse stato ascoltato) avrebbe probabilmente invitato alla cautela alcuni virologi che a metà febbraio, ancora all’inizio dell’epidemia, citavano infauste analogie con l’influenza spagnola (che tra il 1918 e il 1920, in situazioni ambientali e sanitarie molto diverse – si era appena usciti da una guerra, non esistevano gli antibiotici e gli antivirali ecc., uccise tra i 50 e 100 di milioni di persone nel mondo). Queste narrazioni, poi riprese e amplificate dai media – che ormai da tempo sono diventanti degli “imprenditori della paura” (Furedi 1997, Glassner 1999) e che sostengono quella peculiare forma di intrattenimento con temi apocalittici, che Foster (2014) ha definito apocotainment – hanno alimentato scenari catastrofici e scatenato il panico. Le persone, anche con sintomi lievi, prese dal panico si sono riversate nei pronto soccorso degli ospedali (da sempre gli ambienti più infetti che ci siano), che a loro volta sono diventati dei luoghi di diffusione del virus. Inoltre, è probabile che l’iniziale presa d’assalto dei supermercati abbia causato un’ulteriore accelerazione dei contatti e della propagazione del virus. Uno studioso dei media avrebbe anche consigliato di gestire diversamente la comunicazione (da parte del Governo) di misure restrittive per tutto il territorio nazionale: la sconsiderata fuga di notizie ha determinato la corrispettiva fuga dalle metropoli del nord di lavoratori e studenti meridionali, che ha portato all’improvviso nei loro paesi d’origine un virus che sarebbe arrivato probabilmente più lentamente, magari in forma più lieve (perché con il tempo i virus si depotenziano) e quando al nord era forse superato il picco di malati gravi.

La conseguenza più evidente e deleteria di tale logica riduzionista e monodisciplinare è stata l’adozione di un approccio standardizzato e uniforme all’emergenza, anziché contestuale (che è proprio della sociologia): di fatto, progressivamente sono state prese le stesse misure per tutte le situazioni e per tutto il territorio nazionale, sebbene la situazione fosse diversissima regione per regione. In tal modo si è livellata la diversità d’impatto del virus; in altri termini, evitando di pensare a misure mirate, circoscritte per fasce di popolazione più vulnerabile, per condizioni urbane, strutture demografiche, modelli relazionali ecc. si è dato, per usare una nota analogia, un paio di scarpe della stessa misura per tutti i piedi. Invece, i tassi di mortalità di covid-19 sono legati a molteplici fattori socio-demografico-ambientali: la struttura demografica della popolazione, la struttura abitativa, il tessuto urbano, la composizione famigliare, ecc. fino all’inquinamento dell’aria (Burnett et al. 2018). Chiaramente, per comprendere processi complessi, come ad esempio gli alti tassi di mortalità della Lombardia, non ha senso cercare una causa unica, poiché intervengono sempre molteplici fattori. E alcuni fattori hanno un’incidenza e un peso maggiori rispetto ad altri. Tra questi, i principi organizzativi del sistema sanitario regionale hanno certamente inciso maggiormente sulla diffusione della malattia. In Lombardia si è optato per un’ospedalizzazione degli infetti molto superiore rispetto a quella del Veneto. Il Veneto ha quindi fatto maggiore affidamento sui presidi sanitari diffusi sul territorio e su una mappatura più dettagliata degli infetti, mentre la Lombardia ha preferito adottare una strategia centralizzata, che ha ulteriormente esasperato le fragilità degli ospedali (Nacoti et al. 2020).

Gli effetti negativi della standardizzazione si possono osservare anche nelle prescrizioni pratiche. Il caso delle mascherine, imposte come obbligatorie in alcune Regioni italiane, è in tal senso esemplare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sostenuto che sono utili per non diffondere il virus se indossate da persone malate e sono indispensabili per gli operatori sanitari; ma invita alla cautela rispetto all’uso generalizzato, sottolineando che non ci sono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l’infezione. L’OMS invita quindi a una certa cautela al loro uso indiscriminato e standardizzato anche in ragione del (pericoloso) senso di sicurezza che l’uso della mascherina potrebbe indurre in chi la indossa. Il ragionamento dell’OMS è quindi contestuale: specifica in quali condizioni esse sono utili oppure inutili o addirittura dannose. Chiaramente questo è molto più difficile da comunicare a un pubblico vasto, soprattutto se sono i mass media i soggetti a cui viene delegata questa funzione. Eppure, esso è un discorso scientifico, articolato e sistemico, che tiene conto della complessità dei processi in atto. Purtroppo l’approccio alla complessità è scientifico ma non è facilmente comunicabile a un vasto pubblico, come invece lo sono le misure standardizzate. Inoltre, le politiche riduzionistiche, che non si fondano su criteri sistemici, non tengono conto delle conseguenze non virologiche e sanitarie (a breve e medio termine) delle azioni adottate: ad esempio l’inquinamento ambientale causato dall’uso delle mascherine, prodotte con materiali non riciclabili o difficilmente smaltibili, potrebbe avere un forte impatto ecologico (in Cina se ne producono di già 200 milioni al giorno e sono stati già segnalati ritrovamenti di mascherine usate sulle spiagge di Hong Kong e dell’isola di Soko). Allo stesso modo, non sono stati tenuti in debita considerazione i rischi di mortalità connessi alle conseguenze di uno stile di vita sedentario (come ad esempio un incremento dell’obesità, e di cardiopatie), il probabile aumento delle malattie mentali e dei danni psichiatrici provocati dalla solitudine e dall’ansia da isolamento (Brooks et al. 2020), stress e insonnia, così come l’impossibilità di continuare terapie che necessitano una certa costanza; per non parlare dei rischi connessi alla convivenza forzata in situazioni familiari contrassegnate dalla violenza, e in particolare nel caso della violenza di genere (Erbaş 2020).
La recente istituzione di una task force per la “fase due” (cioè il graduale ritorno alla vita sociale e produttiva), composta in prevalenza da esperti “in materia economica e sociale” (con la presenza di un sociologo del lavoro) che dialogheranno con il comitato tecnico scientifico già esistente, potrebbe rappresentare un importante elemento in controtendenza rispetto all’approccio riduzionista e standardizzato fin qui adottato. E quello che molti di noi si aspettano.

Riferimenti bibliografici

Brooks, Samantha K., Rebecca K. Webster, Louise E. Smith, Lisa Woodland, Simon Wessely, Neil Greenberg, and Gideon James Rubin. 2020. “The Psychological Impact of Quarantine and How to Reduce It: Rapid Review of the Evidence.” The Lancet 395 (10227): 912–20. https://doi.org/10/ggnth8.
Burnett, Richard, Hong Chen, Mieczysław Szyszkowicz, Neal Fann, Bryan Hubbell, C. Arden Pope, Joshua S. Apte, et al. 2018. “Global Estimates of Mortality Associated with Long-Term Exposure to Outdoor Fine Particulate Matter.” Proceedings of the National Academy of Sciences 115 (38): 9592–97. https://doi.org/10/gfgbcx.
Epstein, Steven. 1996. Impure Science: AIDS, Activism, and the Politics of Knowledge. Berkeley: University of California Press.
Erbaş, Merve. 2020. “‘StayAtHome’ vs. the Protection of Women against Domestic Violence in the Outbreak of COVID- 19.” European Law & Gender. April 7, 2020.
Foster, Gwendolyn Audrey. 2014. Hoarders, Doomsday Preppers, and the Culture of Apocalypse. New York, New York: Palgrave Macmillan.
Furedi, Frank (1997). Culture of Fear. Risk Taking and the Morality of Low Expectation. London: Continuum, 1997.
Glassner, Barry (1999). The Culture of Fear: Why Americans Are Afraid of the Wrong Things. New York: Basic Books.
Nacoti, Mirco, Andrea Ciocca, Angelo Giupponi, Pietro Brambillasca, Federico Lussana, Michele Pisano, Giuseppe Goisis, et al. 2020. “At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation.” NEJM Catalyst Innovations in Care Delivery 1 (2). https://doi.org/10.1056/CAT.20.0080.

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