Elaborazione del nuovo Piano Nazionale della Ricerca

(in vista del Festival della Sociologia 2020, Narni (TR) 15 e 16 ottobre)
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(14/07/2020) Non vorrei generalizzare quella che è stata la mia esperienza. Però serve partire da sé stessi, basta poi riuscire ad andare oltre. Venivo da settimane piene di impegni sparsi un po’ qua e un po’ là in Italia e in Europa. E avevo un’agenda piuttosto fitta per le settimane successive. A un certo momento, senza che mi rendessi esattamente conto di quello che stava succedendo, ho ricevuto – come tutti – l’ordine di fermarmi. Da quel momento, tutti gli impegni erano cancellati.

Mi ha sorpreso come siamo stati capaci di fermarci: tutte le città di tutte le società di quella parte di mondo che è stata invasa dal virus. Visione surreale delle nostre città, piazze semideserte. Sentimenti contrastanti: allarme e sgomento, silenzio, pace e serenità insieme.

Forse ne siamo stati capaci, perché ne avevamo bisogno, di fermarci, per un po’, a riflettere. Avevamo bisogno di una cesura che separasse nettamente il passato dal presente e dal futuro. Avevamo bisogno di ricollocarci nel tempo. Eravamo rimasti troppo a lungo sedotti dal presente.

Credo che abbia ragione Hartmut Rosa quando parla dell’accelerazione come tratto saliente della tarda modernità. Accelerazione e presentificazione sono due facce della stessa realtà. Nell’accelerazione il passato e il futuro sono sempre più corti. Il passato è popolato di cose obsolete, superate, non più attuali. Il futuro è il luogo dei bisogni immediatamente soddisfabili, non ci sono gratificazioni differite ne mete lontane.

L’ordine di fermarci (per fortuna non l’hanno dato a ospedali e negozi di alimentari) ci ha consentito di guardare al passato, a quello che avevamo appena lasciato, anche forse con un po’ di nostalgia, e di guardare al futuro nell’aspettative che sarebbe stato diverso, migliore o probabilmente peggiore, ma forse anche con la consapevolezza che avremmo potuto fare qualcosa per renderlo diverso. Ci siamo, per così dire, riappropriati di una dimensione del tempo che la seduzione del presente ci aveva sottratto. Fermarsi a pensare. Sarebbe stato meglio farlo già prima, senza la brusca interruzione della pandemia. Ma forse non ci saremo riusciti, attratti da mille stimolazioni, per quanto effimere.

Prima, avevamo perso, in un certo senso, l’idea del viaggio, perché il viaggio è sempre una traiettoria, un da dove vieni e dove vai. Se non sai da dove vieni, perché hai cancellato la storia, e non sai dove vai, perché hai cancellato l’utopia, sei prigioniero del presente, anche se nel presente ti muovi in modo vorticoso e disordinato, oppure pedante e regolato.

Piuttosto, al presente della quotidianità operosa o anche noiosa subentra un presente di incertezza e di paura. Il distanziamento sociale e l’isolamento possono far riscoprire gli affetti familiari, ma anche la violenza domestica, possono favorire la ripresa di relazioni remote, ma anche guastare rapporti di lavoro o di amicizia, possono intaccare fiducia o rafforzare solidarietà. Riducendo i movimenti nello spazio, ridurremo le emissioni, riscopriremo il vicinato e assisteremo forse anche all’inasprimento della litigiosità nei condomini, saremo ad un tempo più isolati e più connessi.

Anche a livello macro, l’emergenza può , come è effettivamente accaduto, condurre alla chiusura dei confini e al ritorno dei nazionalismi o alla consapevolezza di appartenere ad un’unica comunità umana. Lo si è visto in modo esemplare nel dilemma di fronte al quale è stata posta l’Unione Europea. La pandemia ha colpito tutti, sia pure con intensità e tempi leggermente diversi, ma soprattutto i suoi effetti di medio-lungo periodo rischiano di approfondire le differenze già esistenti tra Nord e Sud e tra Ovest ed Est. Se prevarrà il “si salvi chi può” da parte di ogni stato membro, una già fragile Unione rischia la disgregazione. E però la Banca Centrale Europea, il Parlamento Europeo e la Commissione hanno proposto una serie di interventi nel segno del rafforzamento della solidarietà e delle istituzioni. L’esito della lotta tra forze centrifughe e centripete è ancora incerto.

E’ proprio l’ambivalenza degli effetti, che l’evento inaudito e inatteso della pandemia può portare con sé, a farci capire anche che il futuro non è deterministicamente scontato e che gli esiti dipenderanno anche dalle nostre azioni, individuali e collettive e dalla capacità che avremo di costruire delle buone istituzioni.

Ecco, il lockdown ci ha riportato nella consapevolezza del tempo, della durata, del ciclo della vita, della successione delle generazioni. Non so se questa è una constatazione, oppure anche un auspicio. Spero che possa essere entrambe. Spero che questa “pausa” sia servita per farci capire che non possiamo più andare avanti sacrificando il futuro dei giovani per la sopravvivenza degli anziani, che non possiamo più accumulare debiti che le generazioni future dovranno pagare, che non possiamo più sprecare le risorse e distruggere l’ambiente di questo pianeta, che dobbiamo conservare la memoria se vogliamo costruire il futuro.

Non c’è dubbio che questi temi saranno al centro del Festival della Sociologia previsto a Narni nel mese di ottobre. Non avrebbe potuto essere altrimenti se la sociologia serve per orientarsi senza lasciarsi sedurre da un presente, senza memoria e senza futuro.

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