di Luca Corchia
Di Massimo Ampola ricordo il motivo ispiratore del suo essere insegnante e sociologo, quell’invito alla riflessività, mite e distinto nei modi e all’apparenza antiquato ma non meno provocatorio con cui incitava al serrato esame di se stessi e della realtà. Il dubbio metodico come pratica maieutica di una sociologia della persona sempre in relazione. Il primo contatto era perturbante. Chi ci arrivava con qualche lettura non poteva non pensare alle parole di Menone: «prima di incontrarti avevo sentito dire che tu non fai altro che sollevare difficoltà, tu stesso, e farne sorgere agli altri: e adesso, a quel che mi sembra almeno, mi affascini, mi ammalii, realmente mi incanti, al punto che sono pieno di dubbi». L’intorpidire come un viatico per purificare la conoscenza e l’immaginazione. E il trattamento liberatorio della parola, da buon cristiano-sociale, era rivolto soprattutto ai più puri di spirito che prendeva quasi per mano nel discorrere. Maestro del far dubitare gli altri ma non esente egli stesso da dubbi e convinto – questo sì – che fare i conti con la propria ignoranza e la finitudine umana sia il passo che l’età matura richiede per essere un soggetto e non solo un attore. La riconoscenza e persino l’affetto così vivi nell’animo dei suoi studenti e colleghi sono rivolti all’uomo che attraverso il dialogo insegnava la logica della ricerca. Per imparare come si fa un questionario o si calcola un errore statistico c’erano i manuali. A lui interessava problematizzare il ragionamento che sta dietro il saper fare del mestiere, i presupposti impliciti che diamo per scontati e i punti ciechi della comprensione. L’apprendimento e l’esercizio della sociologia differiscono in modo radicale dai processi analoghi di altre discipline: «apprendere ed esercitare ciò che sinteticamente definiamo “ricerca sociale” – scriveva il Prof. – finisce per costituire, oltreché un percorso di specializzazione, un modo di essere nella realtà, generato da un retroterra cognitivo orientato a leggere ed attribuire senso alle relazioni che ne compongono l’architettura. Ma quale realtà? Essa è data da oggetti ed attori che esistono in sé – hanno identità oggettiva ed una costituzione specifica a prescindere dalla mia esistenza soggettiva – ma che esistono per me in quanto entrano in relazione con me, nel tempo e nello spazio». La realtà è sempre più complessa, confusa e multi-prospettica di quanto siamo disposti ad accettare. Ci è data come rete di relazioni a più dimensioni ecosistemiche, tra oggetti e tra soggetti. L’analogia con il cubo di Rubrik raffigurava il senso di una partita conoscitiva giocata su più dimensioni interrelate e dove ogni azione retroagisce sull’altra e sposta il tutto. Il suo lascito da custodire, credo, è questa avvertenza e sensibilità verso un orientamento epistemico che guarda alle relazioni nel loro insieme. Un modo di osservare e di essere-nel-mondo in una relazione adeguata con l’altro che è anche un insegnamento di vita.