Le autrici e gli autori dei saggi selezionati per questo numero monografico di «Sociologia della comunicazione» hanno risposto all’invito a riflettere sulla media ecology, condividendo con i curatori l’intenzione di rileggere e allargare questa prospettiva di studio alla luce delle recenti trasformazioni dell’ecosistema dei media digitali. Questo obiettivo non è slegato dal contesto storico in cui si colloca tale riflessione corale. L’emergenza pandemica ha rimesso in discussione i nostri modi quotidiani di vivere, abitare, lavorare e interagire con gli altri. Durante le diverse fasi di lockdown e distanziamento imposte dalla pandemia i media, in qualità di habitat comunicativi e relazionali, sono divenuti ancora più centrali per l’attivazione e il mantenimento di molteplici pratiche individuali e sociali. Le tecnologie digitali, in particolare, imponendosi come le uniche soluzioni per proseguire la vita lavorativa, scolastica e relazionale nel contesto della limitazione alla circolazione delle persone, hanno ulteriormente rivelato la loro intrinseca duplicità. Da un lato, infatti, hanno mostrato le potenzialità dei media come luoghi di ri-produzione dell’esperienza umana secondo modalità inedite, ma non necessariamente in contrasto con quelle più tradizionali. Dall’altro, invece, ne hanno evidenziato i limiti e le criticità.
Nel momento del ritorno a una situazione pre-pandemica, è apparso più che mai necessario riflettere sull’insieme, e sul senso, delle trasformazioni delle nostre pratiche comunicative alla luce di quanto avvenuto, proprio a partire da una prospettiva di tipo ecologico.
Obiettivo di questa special issue è, dunque, operare una ricognizione degli approcci di studio e delle linee di ricerca orientati anzitutto alla considerazione, ma anche alla cura e alla salvaguardia, dei media come ambienti, quindi della comunicazione come risorsa (sostenibilità digitale, inquinamento comunicativo, digital detox, media resistance, etc), nonché alla critica dell’ecosistema delle piattaforme e alla comprensione dei suoi effetti (collaterali) economici, politici, sociali e culturali.
Il monografico si apre con un saggio introduttivo dei curatori, dove si propone una rilettura e un arricchimento dell’approccio dell’ecologia dei media, che considera i media come ambienti, attraverso i concetti di campo sociale di Pierre Bourdieu e di figurazione di Norbert Elias. L’enfasi sulle dinamiche di potere attivate o rese visibili dai media e sui processi di interazione tra gli elementi delle reti sociali rende l’approccio bourdieusiano e quello di Elias particolarmente utili per comprendere i processi comunicativi nell’era dei media digitali. Attraverso la considerazione contestuale di concetti affini a livello teorico, il significato stesso di ecologia dei media può essere soggetto a un’attualizzazione basata sulla revisione della metafora dei media come ambienti e sulla valorizzazione di una visione ecologica della mediatizzazione.
Nella special issue, un primo focus specifico è costituito dall’analisi delle caratteristiche distintive dell’ecologia della comunicazione – dall’idea degli habitat mediali alla vocazione transdisciplinare e transmediale, fino all’emersione di nuove e più complesse configurazioni tecnologiche – per definirne il valore attuale, ma anche per identificarne possibili traiettorie di evoluzione. Una simile prospettiva è utile per comprendere quanto gli ambienti della comunicazione e dei media, nel segno della mediazione, della mediatizzazione e della dissoluzione dei confini tra fisico e digitale, finiscono per influire sulla costruzione e sulla percezione dell’ambiente materiale e sociale.
In questa direzione, Fausto Colombo, nel saggio intitolato Un futuro “ecologico” per la comunicazione?, riflette sulla portata epistemologica ed euristica della media ecology, oltre che in relazione allo specifico campo dei media studies, anche rispetto alla prospettiva più generale della sociologia della cultura. A tale proposito, l’autore propone tre principali modalità attraverso cui interpretare il significato attuale della connessione tra ecologia e comunicazione. La prima consiste nel riferimento a una concezione di ecologia della comunicazione come scienza, incentrata su un ben definito modello descrittivo in grado di combinare e ibridare una pluralità di dimensioni fondanti degli ambienti sociali, culturali e mediali. La seconda si incentra su un’idea di ecologia della comunicazione come indirizzo o prospettiva, volta a comprendere e a sviluppare una visione sistemica per preservare la comunicazione come risorsa, ma anche per riconoscerne e tentare di limitarne gli elementi di rischio e di tossicità. La terza, infine, riguarda la necessità di mettere a punto metodi ecologici di analisi e di ricerca per bilanciare la tendenza alla sovrarappresentazione di ciò che appare più rilevante in campo comunicativo a discapito di ciò che, invece, risulta più spesso marginale e persino invisibile.
Giovanni Boccia Artieri, nel secondo contributo Ecologia dei media e pratiche di digital pollution, analizza i processi e le dinamiche che hanno dato luogo alla diffusione e alla moltiplicazione di inquinamento mediale soft, sempre più presenti e pervasive all’interno delle routine quotidiane, unitamente alle forme più tradizionali di inquinamento mediale. La ricostruzione dell’evoluzione teorica e disciplinare della media ecology e la considerazione del suo impatto sul piano simbolico e culturale costituiscono il presupposto attraverso cui vengono sviluppate due interpretazioni complementari dell’inquinamento digitale. La prima, in considerazione degli effetti deleteri innescati dalla mediatizzazione e dalla proliferazione di forme aberranti di azioni e di interazioni comunicative, identifica nel digitale una vera e propria minaccia ecologica. La seconda, attraverso il recupero di un approccio sistemico culturale e socio-antropologico, gli attribuisce il valore di impurità del sociale. Sulla base di questa duplice impostazione l’obiettivo da perseguire diventa quello di studiare la digital pollution come pratica mediale.
Silvia Leonzi e Alberto Marinelli, nell’articolo Per un approccio ecologico ai media tra processi di piattaformizzazione e dinamiche transmediali, identificano nella platformization e nella transmedialità due fondamentali categorie interpretative per comprendere la complessità dell’attuale ecosistema mediale. A tale fine, per identificarne le connessioni ma anche le forme di opposizione, gli autori propongono un’analisi comparativa che si sviluppa a partire da una rilettura ecologica della convergenza. La considerazione delle caratteristiche delle piattaforme è alla base dell’esplicitazione della loro valenza di architetture digitali e di intermediari non neutrali. All’interno dell’ecosistema che contribuiscono a configurare, tuttavia, anche alla luce dell’evoluzione concettuale e processuale di cui è stata oggetto la transmedialità, coesistono, e continuano a svilupparsi, gli habitat transmediali: spazi narrativi complessi, esito di ulteriori forme di mediatizzazione. Ciò che, dunque, unisce la piattaformizzazione e la transmedialità da un lato è il complesso di elementi strutturali e tecnologici attraverso cui la prima supporta e condiziona la seconda. Dall’altro, è l’insieme delle modalità processuali attraverso cui la transmedialità, ormai diffusa e radicata nel sistema delle piattaforme, ne costituisce contemporaneamente una prerogativa e una forma di resistenza.
Il secondo nucleo tematico del monografico è costituito dalla riflessione sulle pratiche di disconnessione. La tendenza a un’esperienza di connessione continua, favorita dai social media e dai dispositivi mobili e intensificata dall’emergenza pandemica, ha generato forme di resistenza più o meno selettive, che spaziano da scelte radicali di disconnessione a esperienze circoscritte di digital detox. Queste pratiche si configurano come strategie talvolta individuali e talvolta collettive di resistenza alla pervasività dei media digitali, definendo politiche di disconnessione capaci di porre inedite sfide all’ecosistema mediale.
A questo tema rivolgono la loro attenzione Francesca Pasquali, Piermarco Aroldi e Barbara Scifo. Nel saggio intitolato Exploring digital disconnection. Una proposta di rilettura del dibattito internazionale sulla disconnessione digitale, gli autori esplorano la varietà di fenomeni legati alla digital disconnection, intesa come pratica (o, meglio, insieme di pratiche) fondata sulla decisione volontaria degli utenti di limitare la loro connessione alle piattaforme digitali. L’articolo, nell’offrire un’esauriente rassegna della letteratura scientifica sul tema, ne esamina le basi teoriche e le diverse interpretazioni, che la vedono come pratica di non-consumo vistoso, ricerca individuale di benessere, di autenticità e di produttività attraverso le pratiche di detox, ma anche come impegno educativo finalizzato alla ricerca del benessere digitale o, infine, forma di resistenza politica alla platform society. La connessione e la disconnessione, concludono gli autori, non devono essere viste come opposti, ma piuttosto come parte di un continuum in tensione tra la sostenibilità del modello digitale e nuove prospettive su responsabilità individuale, socialità e diritti.
Chiudono il fascicolo Tiziano Bonini ed Emiliano Treré, riflettendo su Disconnessione digitale e resistenza tra i corrieri dell’industria del food delivery online. Il saggio si presenta in continuità con il precedente articolo, andando ad approfondire il tema della disconnessione nella forma di resistenza alle piattaforme. In particolare, sulla base di un’estesa indagine etnografica condotta in Italia, Cina, India, Messico e Spagna, gli autori indagano le pratiche di disconnessione digitale dei rider delle piattaforme di consegna di cibo online. Il lavoro parte da una rassegna della letteratura emergente sulla disconnessione digitale nella sua relazione con il digital labour per approdare a una tipologia di disconnective resistance che comprende tre forme: disconnessione come sabotaggio, disconnessione solidale e disconnessione alternativa. Complessivamente, gli autori si situano in una prospettiva di studio dei lavoratori della gig economy, mostrando come le pratiche di disconnessione possano essere intese come parte di un più ampio repertorio di resistenza al potere algoritmico delle piattaforme.