Applicazioni di Comunità – Emergenza Covid-19

Michele Bernardi, cultore della materia nell’Università di Perugia e socio AIS; oltre all’attività sociologica, nel quotidiano si occupa di sistemi di sicurezza elettronici ed è titolare e amministratore delegato di un’azienda, con sede a Perugia, parte di un gruppo industriale che conta circa 50 addetti, fra collaboratori e consulenti.

Interpreto questo momento come il crollo del cosiddetto “turbo-capitalismo”, evento che si è manifestato in tutta la sua interezza in poco più di trenta giorni: per cancellare l’Unione Sovietica il tempo necessario fu decisamente più lungo, ed anche questo potrebbe essere oggetto di articolata riflessione.

La mia azienda sta “reggendo”, malgrado un palese immobilismo da parte della sovrastruttura statale al riguardo, solo perché abbiamo messo in pratica sistemi di welfare generativo, i quali stanno garantendo una naturale sopravvivenza alla struttura, piuttosto allarmata ma pur sempre sopravvivenza.

Ecco, questo sarebbe a mio avviso un terreno sul quale intervenire a livello scientifico, rivalutando il messaggio Olivettiano che, alla prova dei fatti, è quello che, nel nostro caso, sta tamponando in qualche modo l’emorragia. Altro aspetto da non sottovalutare sarà la pianificazione per il dopo: sarà corretto chiamarla “ricostruzione”, oppure sarà più intelligente pensare ad una “riconfigurazione”? Riporto sommariamente qualche spunto di riflessione in prospettiva.

Ad Ivrea, in via Guglielmo Jervis 22, si trova la porta di ingresso di quello che fino alla fine degli anni sessanta era l’Ufficio Colonie Olivetti, inserito all’interno di quel Centro Servizi fortemente voluto dall’Ing. Adriano Olivetti dopo accese riunioni nell’allora Consiglio di Amministrazione aziendale da esso presieduto. Una struttura, quella dell’ufficio Colonie, ancora oggi architettonicamente funzionale, progettata nei minimi dettagli dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che ne seguirono la costruzione tra il 1957 e il 1958.

Il Centro Servizi Olivetti era articolato in quattro edifici, uniti in modo organico su Via Jervis e destinati ad accogliere una biblioteca, servizi sociali e assistenziali, aperti spesso anche nelle ore serali e fruibili non soltanto dai dipendenti della Olivetti ma anche dai cittadini eporediesi.

Entrando oggi in quel civico 22 si accede ad un curatissimo risto-bar gestito da giovani e simpatici ragazzi, che hanno adottato come nome quello stesso “Esagono” che altro non è che la forma dominante nel progetto di Figini e Pollini, nell’intimo rispetto del tempo passato: una meraviglio sa collezione di macchine da scrivere campeggia sulla parete di fondo del locale e i ragazzi sanno sempre dare la giusta spiegazione a tutte le curiosità dei Clienti, sia che si tratti della Lettera22, della M1 o della Valentine, sia che si tratti del luogo fisico, trasmettendo passione ed evidente e malcelato trasporto emotivo. Ma è salendo le scale che si può vivere la suggestione più grande, attraversando al primo piano il locale con il bancone bar, uscendo nella terrazza finemente arredata: le officine ICO, “Il gigante trasparente” come le ha definite Liviano D’Arcangelo, investono lo sguardo con l’immensa superficie vetrata, quel pan de verre teorizzato da Le Corbusier e fortemente voluto da Adriano Olivetti, per abbattere il diaframma fra l’operaio in catena di montaggio ed il resto del mondo, in un concetto di assoluta limpidezza materiale e, si badi bene, anche e soprattutto umana: sarà sufficiente approcciare la scena con un minimo di disincantata fantasia per immaginare ed osservare gli operai al lavoro lungo la linea, fra macchine evolutissime per l’epoca, incrociando nel sogno i loro sguardi e, perché no, anche i loro sorrisi.

Ad una attenta analisi dei fatti, ci sono pagine di storia imprenditoriale e cronache dell’epoca le quali attestano, liquidano e certificano Adriano Olivetti come “utopista”, banalmente perché non entrò mai nel conflitto ad esso contemporaneo (e fortemente finanziato ed inflazionato da ambo le parti per pura convenienza) della contrapposizione tra capitale e lavoro: la sua preoccupazione fu sempre come essi potessero convivere insieme per far progredire la società, nell’applicazione pratica di provvedimenti che tendevano ad erodere la struttura tradizionale della conflittualità sindacale.

Egli descrisse ed interpretò il concetto di Comunità in chiave realistica; fondò nel 1948 il Movimento di Comunità, per il quale venne eletto deputato nella III legislatura della Repubblica: contestualmente ebbe luogo un’intensa attività di organizzazione culturale, supportata dalle Edizioni di Comunità, grazie alle quali vennero introdotte al pubblico italiano degli anni cinquanta importanti testi a sfondo comunitarista.

Per Olivetti, la Comunità non fu altro, per sua definizione, che il «diaframma umano fra individuo e Stato, un’entità concreta e di giunzione fra lo Stato hobbesiano e l’individuo atomizzato». Attenzione, non una comunità collettivista, ma una comunità orientata al nucleo sociale costituito sul modello della famiglia, come «unità di sentimenti» piuttosto che come entità politica, come «ordine concreto», radicato nella vita, nel lavoro, nella cultura. La comunità olivettiana, in altri termini, fu territorialmente definita, vivibile, né troppo grande né troppo piccola, dove fu possibile stabilire contatti diretti tra le persone e l’ambiente, che a tutte le attività umane fornisce efficienza e, soprattutto, rispetto della «persona», «della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori».

Adriano Olivetti diffidava di ogni forma di dogmatismo totalitario e ritenne che la democrazia italiana del dopoguerra non si sarebbe affermata senza la diffusa consapevolezza che l’effettiva «esperienza umana» può conservarsi soltanto a livello della comunità naturale: l’Ingegnere, con lo sguardo di oggi, è portatore di una profetica visione e non solo a livello nazionale. La tendenza tipica delle culture collettiviste avrebbe contribuito a logorare i rapporti primari che stanno alla base della società civile, con conseguenze negative immediate quali la «burocratizzazione dei rapporti sociali» e l’alienazione della società rispetto allo Stato. La contrapposizione fra i blocchi occidentali ed orientali, fra «filoamericani» e «filosovietici», ha fatto perdere di vista la comunità primaria, riducendo il concetto di Stato ad apparato Hobbesiano ed in larghissima parte Benthamiano.

Adriano Olivetti tentò di proporre in Italia un nuovo modello di rappresentanza, un’alternativa strutturata, per sua stessa definizione, tra la «democrazia autoritaria dei partiti cattolici» e la «democrazia progressiva dei partiti comunisti». Si trattava della «democrazia integrata», una forma nuova di rappresentanza «più forte, più efficiente della democrazia ordinaria», in grado di coniugare l’uguaglianza necessaria con la libertà individuale e di integrare, nella società civile, gli eletti con i cittadini. Olivetti affermò che la mancanza di conoscenza tra rappresentanti e rappresentati non è connotabile come democrazia: nelle pagine de L’ordine politico delle comunità è scritto chiaramente che solo una riorganizzazione dello Stato in senso comunitarista e federalista può garantire un rapporto di conoscenza diretta tra eletto e cittadino, concetto nebuloso e all’atto pratico impercettibile, nell’attuale esercizio di delega fortemente praticato da quelli che ormai sono e veri propri regimi parlamentari. «Gli eletti di una Comunità, scriveva Olivetti, non potranno certo conoscere personalmente i centomila componenti della comunità stessa; viceversa costoro conoscono assai bene le vicende private di quelli, i tratti del loro carattere, la loro competenza generale o specifica». “L’Ordine politico delle Comunità” è il libro nel quale Adriano Olivetti ha organizzato la sua proposta di riforma della società in un preciso progetto costituzionale. Un disegno illuministico di una mente illuminata, come Norberto Bobbio definì l’opera, articolato attorno all’idea di Comunità come entità centrale per il riassetto territoriale e istituzionale del governo locale. Adriano Olivetti rimane storicamente e a tutti gli effetti un pensatore e un organizzatore politico realista, contrario a qualsiasi ideologia totalizzante della società e ad altrettanti progetti di centralizzazione politica ed organizzazione burocratica dello Stato che fosse diversa dal decentramento comunitarista. L’apparato centralista venne visto da Olivetti come un intralcio tanto alla democrazia quanto alla libertà stessa della «persona», che non viene esaltata per le proprie peculiarità: un precursore del concetto delle capacità che anni dopo Martha Nussbaum avrà modo di elaborare nel suo pensiero. “Città dell’uomo” è considerato incontrovertibilmente il testamento spirituale di Adriano Olivetti: in esso si mettono in evidenza “forze spirituali”, che null’altro erano per l’Ingegnere che i concetti di Verità, Giustizia, Bellezza ed Amore, nel senso Cristiano del termine, ma soprattutto nella compresenza di tutte e quattro le componenti, come la materializzazione dell’equilibrio di quei punti.

Nella “Città dell’uomo” l’Ingegnere afferma che la tecnologia e la scienza, quest’ultima intesa come tangibile creatrice di verità attraverso il progresso, conducono l’uomo verso la Verità, ma ad un patto: che le forze materiali a disposizione dell’uomo siano rivolte verso mete spirituali. La nuova civiltà sognata da Olivetti, dopo quasi sessant’anni dalla sua tragica dipartita, non è ancora arrivata: egli aveva a cuore la Giustizia Sociale, ancor più di quella Giuridica, auspicando che agli operai tornassero in misura adeguata i frutti del proprio lavoro, in modo da soddisfare bisogni e risolvere problemi della Comunità di appartenenza. La Bellezza, per Adriano, non era solo estetica: era sentimento, la gioia del posto di lavoro, i bambini che giocavano in spazi verdi e curati, l’ineguagliabile valore intrinseco dei prodotti della Fabbrica: si prenda in mano una Lettera 22, ed ancora oggi, a distanza di settant’anni dalla sua progettazione, è difficile rimanere indifferenti davanti ad uno dei migliori prodotti che la tecnologia italiana abbia mai saputo realizzare. La sintesi di uno Stato che funziona, nei principi suddetti condensati nel più ampio concetto di Amore. Olivetti ha provato con tutto sé stesso a convertire quell’anomalia che Emmanuel Mounier profetizzò mirabilmente in “La paura dell’artificiale”.

“Progresso, catastrofe, angoscia”, del 1948, messo opportunisticamente fuori mercato in Italia già dal 1951 è un saggio pervaso dall’immaginario della bomba e di tutto quello che stava offrendo la tecnica, un saggio che mette in contrasto progresso e catastrofe; Adriano Olivetti si sforzò quotidianamente di identificare la fabbrica come lo strumento che sarebbe servito per generare il progresso necessario per vivere in maniera migliore, uno strumento funzionale alla miglior vita possibile della Comunità: la fabbrica era davvero uno strumento e non un fine. Per Ivrea passarono in quegli anni, per volontà di Adriano, poeti, sociologi, artisti e registi: la fabbrica era un tassello di una nuova piccola Atene. Era chiaro e perfino dichiarato da Olivetti in persona, che al termine del proprio percorso la fabbrica di Ivrea sarebbe diventata di proprietà della comunità degli operai: verbali di molteplici Consigli di Amministrazione dell’epoca ne testimoniano le intenzioni, ovviamente osteggiate in modo furibondo dai soci, mentre oggi, ai tempi delle stock options a dirigenti iperpagati, si sprecano titoli di giornale stupiti quando qualche coraggioso imprenditore elargisce emolumenti, benefici e partecipazioni agli operai, remando contro il modo di fare di azionisti spregiudicati e fondi di investimento, magari residenti in qualche paradiso fiscale dei Caraibi. In quegli anni di progresso esponenziale, nel Canavese (e non solo) Adriano Olivetti continuava ad adoperarsi per supportare anche coloro che volevano continuare il proprio percorso indipendente dal colosso delle macchine da scrivere e delle macchine da calcolo. Ad esempio, il famoso amaro Don Bairo, veniva prodotto da una storica distilleria del Canavese che in quegli anni si trovava in qualche difficoltà; Olivetti entrò in società con la proprietà, in modo molto velato se non tramite l’IRUR di cui egli era presidente (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale per il Canavese), creando un piccolo consorzio di produttori e contribuendo a risollevarne le sorti. A Matera, egli promosse un comitato scientifico e tecnico per gestire l’evacuazione dei Sassi, con l’obiettivo di preservare il preziosissimo tessuto sociale della comunità contadina lucana: avrebbe potuto infischiarsene, aderendo al progetto politico che riversò tonnellate e tonnellate di cemento sul piano della città, raccogliendo facili voti alle politiche dell’epoca, ma distruggendo un’intera comunità, nata con la sola colpa di essere povera. Quando l’ingegnere mancò prematuramente nel febbraio del 1960, l’azienda di Ivrea aveva pronto l’ELEA, il primo calcolatore a transistor al mondo, mentre pochi anni dopo, quello strascico di iper-tecnologia avrebbe regalato al mondo la P101, la Perottina, ovvero il primo personal computer della storia. Apparati che sarebbero dovuti servire ad agevolare e migliorare la vita dell’uomo e non a diventare le protesi che oggi rappresentano, rendendo attualissime e drammatiche le lungimiranti considerazioni di Mounier. Una realtà di “benessere virtuale”, spesso raggiunto con abuso di tecnologia, spreco di risorse naturali, distruzione sociale ed ambientale. Aspetti su cui spesso bisognerebbe riflettere profondamente: ancora meglio, andrebbe fatto al primo piano dell’Esagono a Ivrea in via Jervis, ammirando i colori sulla vetrata dell’Officina, in quel gioco di riflessi che solo le cime alpine sanno offrire nella calda luce del tramonto. Chiudendo gli occhi ed immaginando un bimbo sorridente che da quella terrazza incrociava i sorrisi del proprio padre o della propria madre, mentre stavano lavorando all’assemblaggio di una Lettera 22. Le mani di due giovani ragazzi pieni di speranza e futuro, quelle mani impegnate insieme a tante altre a costruire uno strumento tecnologico, realizzato per scrivere lettere, pensieri, contratti, libri; si, anch’essa una “protesi” dell’uomo, ma elegante e necessaria per mettere “in bella” il proprio essere. Non un surrogato, non qualcosa di virtuale: non esisteva il correttore che scrive “sto arrivando!” al posto di “sa”, un errore costava il foglio, un pensiero chiedeva di mettersi seduti a ragionare, a pensare, a trovare le giuste parole, senza condensare un addio, un invito, un’articolata e forse timida dichiarazione d’amore, nei duecentottanta caratteri di un tweet in un display di uno smartphone, immersi nel caos del vivere quotidiano di questi tempi “post-liquidi”. Aveva davvero ragione Mounier? La tecnologia ci avrebbe reso mostri che vivono in un mondo virtuale e freddo? Non sta a me poterlo affermare, tuttavia provo a riflettere al riguardo, nel frenetico mondo di WhatsApp e delle istantanee (dal punto di vista della condivisione) di Instagram. Lo stesso discorso vale per l’MP3, sentendo parlare di un ritorno al vinile: si ignora che non sarà facile rieducare all’ascolto “le orecchie” delle nuove generazioni a frequenze sconosciute alla musica digitale; ma soprattutto si riuscirà a riscoprire il tempo di sedersi davanti ad un giradischi, in una ritualità ormai smarrita? Gli artisti, i produttori, saranno disposti a ri-condensare la propria arte nei quarantacinque minuti massimi di due facciate di un supporto, vista ormai l’abitudine ad offrire il doppio di minutaggio, con un’offerta qualitativa decisamente deperita? In cuor mio, lo spero per le future generazioni. Mi limito ad osservare, ammirando con una punta di malinconia l’armonia delle forme della mia Lettera 22 appoggiata sul tavolo. Suggestione? Nostalgia? Sogno? Forse. Sicuramente positività, perché il bello sta proprio nella prospettiva della realizzazione concreta di una o più buone idee e, come tutti i sogni e le speranze che nascono nel cuore, lascia quella bella sensazione tipica dei sentimenti più umani, spesso del tutto avulsi dal puro profitto. L’alterità per Adriano Olivetti si sviluppò in maniera così evidente, sebbene egli attraversò il periodo della sua gioventù fra fortissimi totalitarismi. Quegli stessi totalitarismi evidenziati nelle mirabili pagine dell’epoca in cui Dumont descrive i forti connotati individualistici di tali processi sociopolitici, paradossali rispetto ai continui richiami alla comunità da parte di soggetti come Hitler, ad esempio. Luis Dumont, resta a mio giudizio un grandissimo pensatore nel come professò la libertà di pensiero, istigando a disancorarsi dalle linee del proprio tempo, parlando di pragmatismo e di amore intellettuale, che non è accettare “l’altro” a prescindere, ma è rispettarlo nella propria unicità ed interezza. A leggere le notizie di questi tempi, sembra utopica follia, sembra davvero essere tornati a nuovi totalitarismi. Tuttavia, è importante non far cadere nell’oblio il pensiero di Olivetti, le sue realizzazioni pratiche: ad Ivrea, a Matera, a Pozzuoli, in molte delle sue frasi piene di lungimirante speranza e rispetto per l’Uomo. Doveroso è provarci ancora. Provarci, per riuscirci ogni giorno.

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