COVID-19: adesso sappiamo che molto è andato male. Facciamo il punto per progettare bene il domani – Maria Luisa Bianco già Professore Ordinario di Sociologia Università degli studi del Piemonte Orientale

Condividiamo una serie di riflessioni della stessa autrice, a partire dai dati della pandemia.

Premessa
Paradossalmente, gli studiosi credono di essere più in grado di formulare ipotesi su che cosa a livello sociale dovrà succedere “dopo” il coronavirus, che non sul “durante”, ossia sulle caratteristiche morfologiche e le dinamiche con cui si sta muovendo il contagio. Eppure queste avremmo bisogno di conoscere con accuratezza proprio per poter individuare qui e ora strategie di contenimento stabile della pandemia e di ripresa prudente e compatibilmente rapida della vita.

Probabilmente, i decisori pubblici già oggi non si trovano di fronte alla scelta fra salvare l’economia oppure le vite umane, potendosi appellare al mantra rassicurante “la vita umana non ha prezzo”, ma dovrebbero consapevolmente e responsabilmente affrontare il dilemma se difendere dal contagio vite aggiuntive “a qualunque costo”, oppure preservare da povertà, malattia e morte un numero di vite con ogni probabilità ben superiore, attivando rapidamente un piano che consenta al paese di mettersi in funzione con gradualità informata e “intelligente”. Si tratterebbe, in base a specifici tassi di rischio calcolati, di stabilire, per i singoli e i territori, tempi e “graduatorie” della de-segregazione delle attività economiche, dei cittadini e dei lavoratori di diversa età, genere e altre caratteristiche rilevanti per il contagio. Non dobbiamo nasconderci che sarà impossibile, in ambedue queste strategie, impedire che ci siano esiti improntati sulla disuguaglianza sociale e che le categorie più deboli paghino i prezzi più alti, ma dobbiamo anche essere consapevoli che non imboccare per tempo la seconda strada, che privilegia il contenimento della povertà primariamente con la creazione e la difesa del lavoro, anziché con la concessione di sussidi, avrà effetti sociali, anche di ordine pubblico, drammatici.

Le informazioni messe a nostra disposizione dall’Istituto Superiore di Sanità, il Ministero della Salute, la Protezione Civile e altre istituzioni, sono poco sistematiche, scarsamente confrontabili e lacunose su aspetti importanti. Per questo, l’immagine che rimandano suscita spesso stupore nei lettori attenti e domande che, a tre mesi dalle prime notizie diffuse dalla Cina, continuano ad avere un che di misterioso. Si deve ammettere che, nonostante l’impegno di tanti studiosi, ciò che sta accadendo, a oggi, non lascia ancora intravedere logiche davvero decifrabili; sui percorsi geografici del contagio, i tempi di sviluppo dei focolai, la trasmissione “non casuale” del virus rimangono più numerosi gli interrogativi aperti che non le risposte, per quanto provvisorie.

In molte università e laboratori di ricerca privati, si sta lavorando a ritmi serrati a un vaccino adatto alla produzione industriale in centinaia di milioni (o forse miliardi?) di esemplari, ammesso, e non ancora accertato con sicurezza, che il virus non muti troppo rapidamente per consentire al sistema immunitario di sviluppare anticorpi che siano efficaci per almeno una stagione. Se anche, alla fine, dovessero avere successo, questi sforzi, verosimilmente, non porteranno a risultati utilizzabili prima del 2021. Dopo di che i tempi di distribuzione e poi somministrazione di centinaia di milioni (o miliardi?) di vaccini non potranno che essere a loro volta lunghissimi.

Sembra pertanto evidente che le politiche di lockdown totale adottate da numerosi paesi non possano attendere l’immunità eventuale creata in futuro da campagne estese di vaccinazione. Le famiglie, le persone, le imprese, dalle piccolissime alle grandi, le scuole, i media, il Parlamento, ossia, in breve, la Società tutta, non sono in grado di reggere per tempi ancora lunghi l’attuale condizione di sospensione. Contemporaneamente, le politiche di contenimento del contagio – comunque indispensabili per limitare gli accessi al sistema sanitario ora al collasso – per poter essere al tempo stesso adeguate e parsimoniose necessitano più che mai di piani ben informati sulle logiche della morbilità del virus. Oltre agli aspetti biologici e clinici, è pertanto indispensabile conoscere più a fondo anche ciò che si potrebbe chiamare “funzionamento sociale e territoriale del contagio”, al fine di predisporre tempi e modalità di ri-liberalizzazione della vita della popolazione e di ripresa delle attività economiche, nuove regole di comportamento, adeguamento dei servizi sanitari e socio-assistenziali, nonché delle pratiche di sicurezza nei luoghi di lavoro, nel sistema dei trasporti, nelle scuole e nelle università.

I tempi di applicazione di tali misure non vanno sottovalutati, perché il blocco del sistema economico e il prolungato confinamento in casa della popolazione avranno conseguenze molto pesanti, non solo sullo stato dell’economia e dunque sul benessere materiale dei cittadini, ma anche, direttamente, sulla salute e sulle speranze di vita dei singoli. Per le persone anziane, e in generale per quelle fragili, si potrà verificare in breve tempo un netto peggioramento delle condizioni di salute, causato dalla prolungata impossibilità di svolgere qualunque tipo di attività all’aperto, difficoltà nell’acquisto di farmaci e cibo, lontananza dai parenti con il venir meno degli aiuti di cura necessari e possibili gravi stati di depressione, ma anche mancato accesso a esami diagnostici e cure ospedaliere, ritenuti ora non essenziali dal servizio sanitario. D’altronde, la drastica riduzione dei redditi e la crescita del numero delle famiglie in situazione di grave indigenza (Oxfam calcola che saranno mezzo miliardo i nuovi poveri causati dal coronavirus) farà aumentare in misura del tutto prevedibile i decessi, perché fra povertà e morte c’è una relazione matematica nota. Molti, peraltro, si stanno oggi rendendo conto che l’agognato “ritorno alla normalità” non potrà e non dovrà essere un rattoppamento del modello neo-liberista precedente, perché è stato proprio quel sistema, fondato sullo sfruttamento intensivo e dissennato di tutte le risorse naturali e del lavoro umano, a stravolgere l’ambiente e il suo equilibrio con gli esseri viventi (Giraud, 2020).

Le pandemie virali succedutesi sempre più minacciose nei decenni sono frutto di quella anormalità, cui non si dovrà più tornare, perché le deforestazioni in Africa, in Asia, in
Sudamerica, per fare spazio a monoculture intensive di tipo industriale, hanno scacciato gli animali selvatici dal loro habitat protettivo, esponendoli, insieme ai loro virus, al contatto con gli umani. Contestualmente, i contadini, espropriati dei campi di cui non sono in grado di dimostrare il diritto di proprietà consuetudinario, diventano schiavi nelle nuove piantagioni, oppure finiscono negli slums delle megalopoli post-coloniali. Chi ne ha le risorse, dopo lunghe e pericolose marce della speranza verso l’Europa o gli Stati Uniti, alla fine incontra porti chiusi e muri. E intanto, all’aumento della domanda di proteine animali sul mercato, si è risposto con giganteschi allevamenti di tipo industriale, dove, imprigionati, bovini, ovini, suini vivono in un inferno, ma costituiscono anche concentrazioni infette di virus e batteri, tenute a bada con il ricorso sempre più massiccio agli antibiotici. Così, sempre più numerosi, i batteri si difendono sviluppando resistenza proprio agli antibiotici, rendendoci inermi di fronte alle infezioni, così come il pesce che mangiamo o l’acqua che beviamo sono sempre più inquinati da nanoplastiche.

Che cosa sappiamo e quali domande ci dobbiamo porre

Ritengo che in questo momento ci sia un gran bisogno di fare chiarezza su quali informazioni già possediamo, o potremmo procurarci senza insormontabili difficoltà, al fine di pensare a un sistema di ipotesi solido circa i meccanismi sociali che presiedono alla diffusione del contagio in Italia, cercando risposte a domande sul “chi e perché”. E questo mi propongo di fare, provando a raccogliere e riordinare una serie di dati e informazioni utili per proporre qualche raccomandazione di policies in chiusura del contributo.

Né in Italia, né negli altri paesi, è noto il numero effettivo dei contagiati, inteso come somma dei soggetti che sono sintomatici, o lo sono stati nei mesi passati, e di quelli che, sebbene contagiati, sono (stati) asintomatici, o quasi (i cosiddetti pauco-sintomatici). Le proiezioni elaborate al riguardo da vari gruppi di ricerca divergono sensibilmente e presentano “forchette” così ampie da rivelare di essere per ora prive di basi sicure. Di fatto non si hanno informazioni attendibili sulle dimensioni di nessuno dei due addendi.

Anche sui decessi si hanno dati solo parziali, perché in molti casi sono mancate le diagnosi con tampone. Ieri (12 Aprile) il Capo Dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli, durante la conferenza stampa giornaliera, ha chiarito definitivamente che vengono conteggiati solo i deceduti positivi al test, anziché tutti coloro che al momento del decesso presentavano sintomi Covid-19 compatibili. Per il disordine, l’impreparazione e l’assoluta inadeguatezza di risorse tecnologiche e umane con cui è stata affrontata l’epidemia – effetto evidente dei tagli ventennali alla sanità pubblica e del progressivo spostamento di risorse in favore del sistema privato – sta facendosi strada la certezza che dai numeri ufficiali sulla letalità del virus manchino molti decessi avvenuti nelle abitazioni private, nelle residenze per anziani e finanche negli ospedali. Luca Ricolfi, sul sito della Fondazione David Hume, fa una congettura di oltre 60 mila o addirittura 80 mila morti in Italia.

Le fonti ufficiali e anche i media evidenziano una notevole varianza territoriale dell’epidemia, in parte dovuta a tempi di sviluppo diversi, come nel caso del Piemonte rispetto alla Lombardia, o di Spagna e Stati Uniti rispetto all’Italia. In parte, invece, connessa ad altri fattori da approfondire, che sembrano fare reagire al virus in modo diverso i vari continenti, paesi e singole aree. Pare infatti certo che in Cina il contagio accompagnato da sintomi gravi o letali abbia interessato principalmente due province; analogamente, sembrerebbe che nell’Italia centro-meridionale e insulare esso si presenti in modo più lieve che nelle regioni settentrionali.

Partiamo dalla varianza della diffusione territoriale dei contagi effettivi. In assenza di screening di massa, non si può affatto escludere che i casi asintomatici o pauco- sintomatici, non essendo rilevati, abbiano analoga ampia diffusione in tutto il paese. E’ cioè possibile che la varianza territoriale riguardi la sintomaticità di grado elevato piuttosto che il contagio in sé. E dunque ciò che si dovrebbe indagare, anche ai fini di una strategia di uscita dall’isolamento, è se nelle regioni centro-meridionali, a eccezione delle Marche, il virus abbia infettato un numero molto più contenuto di persone che nel resto del paese, oppure se esso si sia diffuso in misura uniforme al resto del paese, ma presenti sintomi meno gravi.

I dati della protezione Civile e di Iss mostrano un’ampia varianza territoriale della letalità del virus. Anche su questo Ricolfi fornisce sue “congetture” molto lontane dal quadro istituzionale. Secondo lo studioso, le regioni settentrionali e le Marche sembrerebbero le più colpite per una sorta di distorsione ottica, in quanto sarebbero penalizzate dall’aver virtuosamente somministrato un maggior numero di test e ricoverato molti più contagiati. Nelle regioni centro-meridionali, invece, notoriamente le più carenti per strutture ospedaliere e di rianimazione, una stima realistica dei morti (enorme davvero) si otterrebbe moltiplicando per 23,5 il tasso ufficiale di letalità fornito dalla Protezione Civile. Tale congettura, tuttavia, oltre che allarmistica, sembra poco verosimile, non fosse altro perché al Sud nessun giornalista, nessun programma televisivo, nessun medico, nessun cittadino ha mai rivelato al resto del paese ignaro un’emergenza epidemica di tale entità. A Bergamo e Brescia nessuno sarebbe stato in grado di nascondere la tragedia. Mi domando come possano riuscirci in altre regioni.

Variazioni % dei decessi, nelle settimane 1-21 Marzo 2020, rispetto al le settimane 1-21 Marzo 2019, per sesso

Fonte: Elaborazione di dati ISTAT su mortalità 3 settimane Marzo 2019 e Marzo 2920 in un campione di 1080 Comuni

Legenda: la ripartizione delle regioni per zone è ripresa da Luca Ricolfi, per garantire confrontabilità
zona rossa: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche
zona verde: Sud (compreso il Lazio) e Isole
zona gialla: Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Umbria, Provincia di Trento

E in effetti, semplici elaborazioni da me effettuate sui dati pubblicati dall’ISTAT nei giorni scorsi (gli stessi cui ricorre Ricolfi) mostrano una geografia della letalità epidemica (cfr. tabella) compatibile con le informazioni ufficiali fornite dalla Protezione Civile. L’incremento dei decessi verificatosi nelle prime tre settimane del mese di Marzo 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019, che può essere considerato una stima dei decessi dovuti al Covid-19, conferma che al Sud esso è decisamente più contenuto che nel resto d’Italia (+33,1% contro +133,4% medio nelle regioni più colpite, e quasi +800% di decessi maschili a Bergamo e poco meno che +400% a Brescia). Rafforza le mie evidenze la considerazione che il campione ISTAT include solo i 1080 Comuni dove si è registrato un numero di decessi anomalo rispetto al 2019. Se applicato rigorosamente dall’ISTAT, come assumo che sia, tale criterio ha le seguenti importanti implicazioni: (1) il campione include un numero elevato di comuni della zona rossa settentrionale, ma un numero molto contenuto nel Sud e nel Lazio, evidentemente perché la maggior parte dei Comuni del Mezzogiorno, non avendo registrato (quasi) nessun decesso in eccesso e quindi riferibile a Covid-19, non sono entrati a far parte del campione stesso; (2) conseguentemente, sia il moltiplicatore di letalità di Ricolfi, sia il tasso di crescita dei decessi Covid-19 da me elaborato, sono molto sovrastimati nel caso del Sud, perché attribuiscono all’intero Mezzogiorno la letalità epidemica dei pochi Comuni anomali.

In breve, la situazione epidemica del Mezzogiorno non è da sottovalutare, ma l’allarme lanciato da Ricolfi sul Messaggero, quotidiano a larga tiratura, era assolutamente sproporzionato e poco opportuno: nel Sud e nel Lazio non c’è una grande mortalità tenuta nascosta e fuori controllo, mentre nelle regioni del Nord, nient’affatto penalizzate dalla loro presunta virtuosità, davvero il virus ha fatto ammalare gravemente e morire numeri importanti di persone, rispetto sia alle altre regioni italiane sia a molti paesi stranieri, la cui spiegazione non potrà cadere nel dimenticatoio in futuro.

In Italia, più che altrove, è notevole anche la varianza per classi di età. Sembrano essere pochi, per fortuna, i bambini sintomatici con contagio diagnosticato e, per certo, per loro il tasso di letalità (fatality rate) è molto basso, vicino allo zero. Si sa anche che parecchi di quei pochi minori che si ammalano gravemente sono affetti da altre patologie e al momento del contagio erano ricoverati in strutture ospedaliere o in comunità socio-assistenziali.

Anche le fasce delle età giovanili e adulte sembrano essere protette da sintomatologie acclarate o anche letali, sebbene per lo stile di vita e la condizione lavorativa dovrebbero essere le più esposte. Secondo dati Iss, dei 14.860 deceduti con diagnosi Covid-19, al 6 Aprile, solo 136 (0,9%) erano di età compresa fra 40 e 50 anni, mentre, dei soli 42 deceduti con età inferiore a 40 anni, ben 28, nonostante la ancor giovane età, si sa che erano affetti da patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità). Voglio chiarire che con questi dati non intendo affatto banalizzare la tragedia delle morti, bensì evidenziare che i giovani e gli adulti, se in salute e con stili di vita non nocivi (mi riferisco in particolare all’abuso di alcol, cibo, fumo, droghe), corrono pochi rischi di ammalarsi in modo severo.

Ben diverso il caso delle persone anziane. Considerato che l’età media del totale delle persone con diagnosi Covid-19 è 62 anni e quella dei deceduti è 78 anni, con mediana a 80 anni, per la gran parte, coloro che si ammalano gravemente sono anziani, portatori di una o più patologie diagnosticate (solo il 3,3% delle persone decedute non aveva alcuna patologia pregressa, mentre il 61,8% ne aveva 3 o più). Per questa ragione è possibile che i decessi di tali pazienti in alcuni contesti territoriali (e in alcuni paesi, come si sospetta per la Germania) possano non essere rubricati come causati da Covid-19. Anche in questo caso la forte incidenza delle patologie concomitanti nulla toglie alla gravità della letalità del virus, ma ci dice anche che le persone anziane, se sane e, come vedremo più avanti, se non risiedono in una qualche comunità residenziale, corrono rischi di non sopravvivere al contagio veramente limitati. La distribuzione per età descritta dal grafico, non è uguale nelle diverse parti del paese; in quattro delle regioni più colpite dall’epidemia, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Marche, i contagiati anziani con 70 anni o più sono oltre il 40% del totale dei diagnosticati nelle singole regioni e dunque abnormemente numerosi rispetto al resto del paese. Forse lì non si è saputo proteggere la popolazione più fragile o, peggio, come sta indagando la Magistratura, la si è esposta a rischi aggiuntivi.

Contagiati di età > di 69 anni (% sul totale contagiati), per Regione

 Fonte: Elaborazione su dati Iss Covid-19, data pubblicazione 7 Aprile 2020

In Italia, come altrove, è molto ampia anche la varianza per sesso. Non solo le donne si infettano in minor numero (58.172 contro 65.690), pur essendo più numerose nella popolazione perché più longeve, ma presentano anche uno strabiliante vantaggio rispetto agli uomini nel tasso di letalità (fatality rate, numero dei deceduti sul numero dei diagnosticati), che in tutte le classi di età è circa di 1 a 2 in favore delle donne. Alcuni studiosi stanno ipotizzando possibili effetti del regime ormonale (Aloisi, 2020), ma è realistico domandarsi se non abbiano un ruolo importante anche variabili sociologiche connesse con il genere, che, nella generazione degli ottantenni in questione, sono state molto differenziate fra uomini e donne. Penso in primo luogo all’esposizione a lavori usuranti, sostanze nocive, intemperie e fatica fisica, alla pratica del fumo, che negli anni 50, quando gli anziani di oggi erano ragazzi, era molto più diffusa fra i maschi, e anche all’abuso di alcol e droghe. Potrebbe, infine, essere influente anche una maggiore attitudine femminile a prestare attenzione ai messaggi del proprio corpo e a richiedere e seguire poi scrupolosamente le indicazioni del medico.

A tale proposito, mi sembra utile ricordare l’ipotesi formulata da alcuni studiosi che le notevoli difese dei bambini nei confronti del contagio sintomatico potrebbero dipendere dal sistema immunitario ben allenato a produrre anticorpi, grazie alle numerose vaccinazioni nei primi anni di vita. Tale ipotesi, se confermata, potrebbe essere estesa anche agli adulti, domandandosi se coloro che nel corso della vita hanno aggiornato scrupolosamente le coperture immunitarie, grazie ai nuovi vaccini via via resi disponibili e ai necessari richiami periodici, compreso quello anti-influenzale annuale, mostrino minori probabilità di sintomi gravi o letali del contagio da Covid-19. Di conseguenza ci si può anche chiedere se, al contrario, i no vax per scelta o trascuratezza possano risultare particolarmente vulnerabili di fronte all’infezione a causa di un sistema immunitario non allenato a produrre anticorpi. In tal caso una accertata superiore meticolosità delle donne nei confronti delle vaccinazioni potrebbe essere uno dei fattori della loro maggiore resistenza alla malattia.

E’ invece drammaticamente certo, per i dati ufficiali e le informazioni di cronaca, che i contesti di vita delle persone fanno una differenza enorme nel rischio di ammalarsi, soprattutto in forma grave. Per chi vive nelle comunità residenziali, come le RSA per anziani (pubbliche o in convenzione), le strutture per disabili, i conventi di religiosi, e anche per chi è ricoverato in una struttura ospedaliera, le probabilità di essere contagiato e di incorrere in un esito letale si sono dimostrate molto elevate. Ma anche su questo c’è carenza di dati sistematici e trasparenti. Il Presidente del Consiglio Superiore di Sanità nei giorni scorsi ha ipotizzato che, nelle sole RSA lombarde, i deceduti potrebbero essere oltre 1800. Non si ha notizia, invece, di contagi anomali per numero e decorso nelle strutture residenziali, a regime semi-alberghiero privato, per anziani autosufficienti. Quanto ai penitenziari, anche lì mancano dati affidabili, sebbene ci sia diffusa consapevolezza della criticità del problema. Marco Travaglio, su Il Fatto Quotidiano del 4 Aprile, ha pubblicato dati confortanti, che, a mia conoscenza, non hanno ricevuto smentita (0,03% di contagiati sintomatici nelle carceri e a fronte dello 0,16% nella popolazione italiana complessiva). Tuttavia nel lasso di tempo intercorso la situazione potrebbe essere radicalmente cambiata in peggio e, peraltro, molti detenuti potrebbero non essere inclusi nel novero dei contagiati, perché in regime di detenzione domiciliare per precauzione sanitaria.

Veniamo ora ai luoghi di lavoro. I dati comunicati ufficialmente non sembrano mostrare numeri particolarmente elevati di contagi sintomatici e accertati nelle imprese – comprese quelle tuttora in funzione e dove molte persone sono costrette in spazi ristretti, si pensi ai call center, le aziende di logistica, i supermercati. Il grande impegno delle organizzazioni sindacali sulla questione della sicurezza dei lavoratori ha di certo avuto effetti di prevenzione e protezione importanti, che non devono essere vanificati con modalità avventate di riapertura delle aziende. Questa evidenza empirica, opportunamente approfondita, potrebbe essere di aiuto ai decisori pubblici. Gli unici contesti lavorativi nei quali fra il personale addetto si ha notizia di un numero di contagi molto preoccupante, con tasso di letalità a sua volta elevato, sono gli ospedali, le RSA per anziani, gli istituti di reclusione, vale a dire tutte quelle strutture residenziali ove il personale, preposto alla cura, assistenza e contenimento di chi vi è ospitato o rinchiuso, non ha ricevuto né le informazioni protocollari adeguate né gli strumenti di protezione indispensabili. Quest’ultimo dato fa presumere che insieme alle guardie carcerarie anche i detenuti si siano infettati in grande numero.

A mia conoscenza, infine, per i grandi centri urbani mancano informazioni sul quartiere di residenza dei contagiati, le quali invece sarebbero utilissime per poter mappare i focolai e individuare i fattori sociali connessi, poiché la segregazione urbana costituisce un’importante proxy della condizione sociale dei soggetti (reddito, istruzione, esperienza di lavoro usurante, salute e finanche speranze di vita) e dunque dei loro stili di vita e di consumo, oltre che indicazioni su caratteristiche ambientali (densità abitativa, salubrità dell’abitazione, esposizione all’inquinamento atmosferico e al rumore, ecc.). La cartelle ospedaliere dei ricoverati potrebbero essere preziose a questo fine.

La fotografia offerta dai dati qui riassunti, sebbene imprecisa, ci stimola a porre alcune domande che potrebbero essere importanti per la formulazione di policies efficaci e parsimoniose di uscita graduale dall’emergenza. Le modalità del contagio e dei suoi esiti severi o letali, infatti, oltre a caratteristiche biologiche del virus stesso – attualmente allo studio in molti laboratori scientifici – e a caratteristiche fisiologiche e patologiche pregresse dei soggetti colpiti, potrebbero essere legate a una serie di variabili di carattere socioepidemiologico all’interno di un modello di relazioni complesso. Variabili che hanno uno stretto legame diretto o indiretto con la struttura delle disuguaglianze e che, se prese da sole, non sono in grado di “spiegare” la morfologia della propagazione dell’epidemia, ma potrebbero diventare cruciali nel modo con cui si combinano fra di loro. Alcune potrebbero influire sulla maggiore diffusione del virus in certe aree, altre sulla varianza della gravità dei sintomi fra gruppi diversi di popolazione.

Partiamo dalle differenze che sembrano esserci fra i territori. Alcuni demografi del Nuffield College di Oxford (Dowd, 2020) ai primi di Marzo hanno formulato l’ipotesi che la concentrazione di contagi gravi o letali in Lombardia fosse dovuta all’interazione fra la struttura per età della popolazione e la consuetudine, particolarmente diffusa proprio nel
Nord Italia, di risiedere in prossimità dei genitori e di spostarsi giornalmente per raggiungere il luogo di lavoro (Istat 2018). Una sorta di promiscuità intergenerazionale che avrebbe favorito la trasmissione del virus agli anziani stanziali da parte di figli e nipoti portatori asintomatici, più esposti al contagio per la loro elevata mobilità sul territorio, ma anche in grado di reazione immunitaria più efficace. Una spiegazione suggestiva, che tuttavia non regge al confronto con altri contesti simili per struttura anagrafica della popolazione e vicinanza fra le generazioni. Penso alle grandi conurbazioni giapponesi, ben lontane dalla situazione epidemiologica lombarda, nonostante l’altissima longevità (la più alta del mondo) e la pratica frequente della coabitazione stabile di tre generazioni in spazi abitativi ristrettissimi.

Non sfugge ai più che in Italia la massima concentrazione del contagio e della sua letalità appare localizzata nelle regioni più ricche del paese, dove la presenza di imprese industriali è capillare e sono molto fitti gli scambi di persone e manufatti con il resto del mondo, ma anche, proprio per questo, vi è un elevato inquinamento. Emile Durkheim direbbe che lì la modernità industriale ha prodotto, insieme alla “densità materiale”, anche una “densità morale” particolarmente elevata. Paolo Perulli (2012), da parte sua, parlava del Nord come cittàregione globale e di un ruolo “super gravitazionale” di Milano (Perulli, Pichierri 2010). Guardata con questi occhiali la carta geografica italiana dell’epidemia può essere letta come una ribellione della natura contro l’impronta violenta dell’uomo.

Tuttavia anche in questo caso non è difficile trovare altre aree, per esempio l’Europa centrale, simili alla Lombardia o all’Emilia Romagna dal punto di vista socio-economico, ma, sembra, diverse da quello del contagio. Potrebbe essere influente la diversa struttura delle famiglie, “lunghe” in Italia (Scabini, Donati 1988), con i figli conviventi fino a età molto avanzata, ma non nei paesi centro e nord-europei, dove le generazioni vivono invece separate. Importantissimi sono certamente il livello e il tipo di sostanze presenti nell’aria, che fanno della pianura padana una delle aree più inquinate d’Europa (Conticini, 2020), non come carriers del virus, ma come fattori che predispongono a risposte patologiche al contagio, tanto più severe quanto più a lungo i soggetti vi sono stati esposti, come potrebbe essere per gli anziani (RIAS, 2020). Un servizio di Report trasmesso su Rai 3 il 13 Aprile, ha documentato uno specifico inquinamento atmosferico nelle aree lombarde ed emiliane epicentro del contagio, dovuto agli allevamenti industriali di bestiame e all’uso dei liquami come fertilizzante in agricoltura. Questi ultimi dati sarebbe utili, non soltanto per progettare le modalità di ripresa delle attività, ma soprattutto per dare avvio contestualmente a politiche economiche “rivoluzionarie”, radicalmente improntate al rispetto della vita e dell’ambiente.

Ricordo che nel mese di Gennaio e in parte di Febbraio, in Emilia Romagna e Lombardia ci sono state numerose manifestazioni di piazza molto affollate. Era l’elettrizzante stagione, iniziata con la campagna elettorale per l’elezione del Presidente della Regione Emilia Romagna e proseguita ben oltre, nella quale, insieme ai partititi politici del centrodestra e del centrosinistra, è stato impegnato il nuovo movimento delle “Sardine”, il cui nome deriva paradossalmente e, oggi minacciosamente, proprio dall’invito a stare stretti stretti assieme. Probabilmente, la riunione di molte migliaia di persone che si spostavano ripetutamente sul territorio da un evento all’altro, scattando selfie vis a vis e abbracciandosi, insieme al bagno di democrazia, ha innescato anche una bomba biologica in un periodo in cui il virus, con la disattenzione di tutti, già girava abbondantemente sotto traccia. Il 20 Febbraio poi, un’improvvida partita di calcio a San Siro fra Atalanta e Valencia ha attirato a Milano quaranta mila tifosi bergamaschi ignari e sicuramente poco prudenti. Ma questi eventi, che hanno coinvolto prevalentemente giovani e giovani adulti, hanno di certo influito sulla velocità della propagazione, ma non bastano da soli a spiegare entità e letalità del contagio in modo specifico fra gli anziani della pianura padana.

Probabilmente, insieme ad altri fattori, cruciale è stata la circostanza, forse casuale, che l’infezione in prima battuta sia stata diagnosticata in piccole strutture ospedaliere di provincia, poco attrezzate e del tutto impreparate sui protocolli da impiegare in caso di epidemia: i primi ricoverati, non isolati immediatamente in reparti protetti a loro dedicati, hanno infettato i medici e gli infermieri, gli altri pazienti, i parenti cui era consentito recarsi in ospedale senza alcuna precauzione, e via via i loro i famigliari a casa, gli amici. Il contagio ha così preso velocità, probabilmente favorito dalla vita di comunità tipica degli anziani nei piccoli centri, soprattutto gli uomini, abituati a fare capannello nelle piazze, ritrovarsi al bar a discutere di calcio, giocare a carte in locali affollati e poco aerati.

La Magistratura sta anche indagando se la delibera emessa l’8 Marzo dal Governatore della Lombardia Fontana possa avere esposto a rischio gli ospiti delle RSA, disponendo che vi fossero ricoverati pazienti affetti da Covid-19 in forma lieve, per fare spazio negli ospedali a persone contagiate in modo più grave. Deliberazione analoga è stata emanata anche dalla
Regione Piemonte.

Raccomandazioni
Pur nella loro parzialità e scarsa comparabilità, i dati consentono di fare alcune affermazioni di sintesi, accompagnate da raccomandazioni di politiche.

In Italia si ammalano in modo grave, con probabilità relativamente elevate di esito letale, persone prevalentemente anziane, affette da numerose patologie. Si sa per certo che una quota elevata degli anziani deceduti (per ora non quantificabile) era ricoverata in RSA.

Bambini, giovani e adulti corrono bassi rischi di contagio grave, se non sono afflitti da patologie serie e, in ipotesi, se non sono dediti a pratiche nocive per la salute in generale e per il sistema respiratorio nello specifico (fumo, droghe, alcol, zuccheri in eccesso, ecc.).

Le donne sono contagiate in minor misura rispetto agli uomini e, soprattutto, in tutte le classi di età, quelle (relativamente poche) diagnosticate positive hanno soltanto la metà delle probabilità di incorrere in esito letale.

E’ assolutamente plausibile che i tempi della prima insorgenza e l’intensità della diffusione del contagio siano connessi con il livello di industrializzazione nel settore manifatturiero e in quello primario, l’urbanizzazione diffusa sul territorio, la quantità degli scambi di persone e manufatti interni all’area e con il mondo esterno, mentre il tasso di letalità potrebbe essere influenzato dalla concentrazione di sostanze inquinanti presenti nell’ambiente, con loro eventuali punte nel periodo specifico di diffusione del contagio.

L’elevato fatality rate in Italia dipende solo in parte dalla struttura per età della popolazione, poiché altri paesi, come la Germania e il Giappone, ugualmente o più longevi, presentano rischi di decesso decisamente più bassi. Oltre che da ragioni di imputazione burocratica delle cause di morte, potrebbe dipendere da un peggiore stato di salute degli anziani italiani e, senza ombra di dubbio, dall’insufficienza di posti in terapia intensiva, di attrezzature e mezzi di protezione adeguati, nonostante i riconosciuti e straordinari sforzi fatti da medici e infermieri. Le Amministrazioni regionali delle zone più colpite, travolte da una tragedia diventata immane, con risorse insufficienti a disposizione e anche poca esperienza, hanno sottovalutato inizialmente l’emergenza, non sapendo dare risposte rapide, e dimostrando scarsa consapevolezza delle conseguenze non volute, ma prevedibili, delle loro scelte.

Sono assolutamente convinta che, per minimizzare le sofferenze e nuovi lutti, sia necessario che il Governo rapidamente consenta alle persone di riprendere a vivere, (1) facendo in primo luogo e immediatamente poderosi investimenti nella sanità pubblica, sia nel sistema ospedaliero sia nella medicina di base sul territorio, per proteggere le persone più fragili o più esposte che dovessero ammalarsi, (2) predisponendo regole temporanee di prudenza per gli anziani non in perfetta salute, più stringenti per le persone affette da patologie gravi (esempi possibili sono la consegna a domicilio da parte dei supermercati e delle farmacie per limitare la frequentazione di luoghi affollati, divieto di partecipazione a eventi che riuniscono numeri molto elevati di persone, ingresso nei cinema e nei teatri in ore dedicate, ecc.). Mi preme sottolineare che vanno esclusi sia un ulteriore e generalizzato confinamento in casa, sia il divieto di intrattenere relazioni con i parenti e gli amici, perché queste regole stesse si trasformerebbero in un’importante causa aggiuntiva di malattia e morte, (3) consentendo agli altri, bambini, giovani e adulti, di riprendere le loro varie attività (per le scuole si potrebbe pensare al prossimo anno scolastico), sulla base della considerazione che, anche negli attuali momenti tremendi, essi in effetti non hanno corso rischi molto superiori a quelli cui si sono esposti continuamente fino a ieri, scendendo spericolatamente su una pista ghiacciata, o mettendosi al volante dopo una nottata in discoteca, o assumendo cocaina o altre droghe sintetiche. Saranno sufficienti l’applicazione di norme rigide di sicurezza e igieniche e l’abbandono di stili di vita dannosi di per sé alla salute e all’ambiente.

Quest’esperienza, così scioccante collettivamente e individualmente, potrebbe averci fatto riflettere sul valore della vita e quindi disporci ad assumere comportamenti più rispettosi di noi stessi, degli altri e della natura. Ma l’occasione epocale della pandemia, come gli storici documentano essere avvenuto in passato in occasione di altre pesti, deve essere l’ammissione che il neo-liberismo globalizzato, trent’anni esatti dopo il fallimento del sistema comunista, è esso stesso crollato sotto la sua insostenibilità sociale e ambientale. E’ stato assurdo e colpevole illudersi di poter essere ricchi e sani in pochi, in un mondo fatto di poveri che premono ai cancelli delle nostre abitazioni e ai confini delle nostre nazioni, in un pianeta sempre più malato.

L’Italia che si infetta e muore soffocata proprio nelle sue regioni più orgogliosamente ricche è una metafora drammatica delle logiche del mercato globale, le stesse che hanno imposto di produrre altrove, grazie a lavoratori sottopagati e privi di tutele, quelle mascherine e quei respiratori che avrebbero potuto salvare la vita a migliaia di nostri concittadini.

Riferimenti
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Perulli, Paolo, Pichierri, Angelo, La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, Einaudi 2010
Perulli, Paolo, Nord. Una città-regione globale, Il Mulino 2012
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Ricolfi, Luca, Ci tengono chiusi in casa perché non sono capaci di gestire l’epidemia, Hume Page, 7 Aprile 2020
Ricolfi, Luca, E se il Covid-19 fosse già dilagato anche al Sud?, Hume Page, 8 Aprile 2020
Vineis, Paolo, Creare consenso intorno ad alcune misure immediate, < Scienza in rete>, 01/04/2020

Allegati
Decessi nei periodi 1-21 Marzo 2019 e 1-21 Marzo 2020, per sesso e Regione.
Campione ISTAT di 1084 Comuni

Fonte: elaborazione su dati ISTAT

Contagiati per Regione e classe di età

 Fonte: elaborazione su dati Iss, Covid-19, data pubblicazione 7 Aprile 2020

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