In ricordo di Maggie (Margaret S. Archer 1943-2023)

di Pierpaolo Donati

Ho conosciuto Margaret Scotford Archer, o semplicemente Maggie come lei amava farsi chiamare da amici e colleghi, in occasione del congresso ISA che si svolse a New Delhi nel 1986, quando, prima donna nella storia dell’associazione, fu eletta Presidente. Mi fu presentata da Alessandro Cavalli come “una brava sociologa inglese dell’educazione”. Ed effettivamente, a quel tempo, era nota per il suo primo importante lavoro (Social origins of educational systems, 1979), in cui spiegava l’origine e lo sviluppo dei differenti sistemi educativi, in particolare in Francia e Gran Bretagna – oltre a Danimarca e Russia – sulla base delle differenti culture e strutture sociali (gerarchiche e centralizzate vs pluralistiche e decentrate). Questa ricerca era sostanzialmente frutto dei suoi studi a Parigi con Pierre Bourdieu, con cui ha collaborato dopo aver ottenuto il PhD in sociologia alla LSE nel 1967. Io credo che questa prima opera sia stata decisiva per tutta la sua produzione successiva, per almeno due buoni motivi: in primo luogo perché nell’educazione è cruciale la relazione fra l’individualità e la socialità, tema che sarà sempre al cuore di tutte le sue ricerche; e poi perché, come mi disse in una conversazione privata, lei voleva fosse chiaro al mondo accademico che lo schema morfogenetico era già nato in quell’opera, anche se l’avrebbe teorizzato in modo compiuto solo più tardi (nel libro del 1995). In effetti, proprio in questa ricerca prende le distanze da Bourdieu, criticando il costruttivismo strutturalista per mostrare che i processi sociali sono basati sull’interplay fra agency, culture e structure. Al di là dei lavori, per così dire, giovanili, la sua produzione scientifica ha una prima tappa fondamentale nel libro Culture and agency (1988), che può essere considerato come la prima pietra miliare nell’elaborazione di una teoria sociale generale in termini epistemologici. In quest’opera fondamentale, io credo, si nota una vena weberiana che la porta a contrapporsi a tutte quelle teorie strutturaliste che dimenticano o sottovalutano il nesso fra agire personale e valori. Questa posizione diventa molto chiara nel libro successivo Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach (1995) in cui critica tutta una serie di altri autori (fra cui G.H. Mead) e soprattutto si oppone alla teoria della strutturazione di Tony Giddens, tacciandola di ‘conflazione centrale’ fra agency e struttura. Archer sostiene, infatti, che gran parte della teoria sociale soffre del difetto generico della conflazione (conflation è un termine difficile da tradurre, indica un mix di fusione e mescolanza forzata) in cui, a causa della riluttanza o dell’incapacità di teorizzare le relazioni emergenti tra i fenomeni sociali, viene negata l’autonomia causale a un termine della relazione. Se si privilegia l’efficacia causale dell’agire si riduce l’autonomia della struttura (la chiama “conflazione verso l’alto”). Se si conferisce efficacia causale solo alla struttura pensando che determini l’azione, si incorre nella “conflazione verso il basso”. Infine, se l’azione e la struttura sono viste come co-costitutive, nel senso che la struttura è riprodotta attraverso l’azione che è a sua volta simultaneamente vincolata e abilitata dalla struttura, allora si incorre – come fa Giddens – nella “conflazione centrale”. Quest’opera, che io penso sia da annoverare fra i grandi classici della sociologia, presenta lo schema generale della morfogenesi sociale, applicabile a tutti i processi sociali, e dunque al cambiamento dell’intera società (di qui, il titolo della traduzione italiana: La morfogenesi della società, 1997). Il libro è internazionalmente noto perché in esso Archer ha coniato il termine elisionism, che indica ogni teoria per la quale il sociale e l’individuale non sono separabili e dunque caratterizza ogni paradigma che si oppone sia all’individualismo sia al collettivismo (o olismo). Qui Archer fa largo uso della filosofia sociale di un suo grande amico, Roy Bhaskar (1944-2014), che lei ha sempre considerato con enorme ammirazione perché, così diceva, Roy ha “under-laboured” per ogni teoria sociologica ispirata al realismo critico. Tale lavoro fondazionale, secondo Archer, è riassumibile così: (a) il rifiuto delle “congiunzioni costanti” di Hume come base carente, perché empirista, per concettualizzare la realtà sociale e la causalità; (b) il ricorso ad un’ontologia stratificata dell’ordine sociale, che sostiene l’emergenza e le conseguenze causali dell’interazione di secondo o terzo ordine tra proprietà e poteri emergenti; a sua volta, ciò implica l’accettazione della causalità ascendente e discendente tra gli strati; (c) il rifiuto di assegnare priorità automatica alla struttura (o alla cultura) rispetto alla agency quando si tiene conto della causalità nel dominio sociale; (d) l’adeguatezza esplicativa va fondata sui “tre pilastri” del realismo critico (CR), cioè realismo ontologico, relativismo epistemico, razionalità giudicante. “Cercherò di mostrare – così scrive in un saggio – come il mio programma esplicativo “Morfogenetico/Morfostatico” (M/M) integri utilmente quanto sopra con un approccio interdisciplinare per spiegare il cambiamento e la stabilità in tutte le forme e istituzioni sociali. Questo quadro è obbediente sia ai quattro principi di cui sopra, ma fornisce anche un kit di strumenti per coloro che cercano di teorizzare sullo sviluppo di particolari processi sociali, pratiche e politiche (e resistenza ad essi) ovunque questo sia situato storicamente e geograficamente. Di per sé, l’approccio M/M non è una teoria. Se qualcuno preferisse assegnarlo alla ‘metodologia’, non avrei nulla da obiettare”. Con Bhaskar e una cerchia di altri realisti critici, Archer dà vita nel 1997 all’International Association for Critical Realism (IACR) il cui manifesto può essere considerato il volume Critical Realism: Essential Readings (1998) a cura di M. Archer, R. Bhaskar, A. Collier, T. Lawson and A. Norrie. Più tardi, questa volta sulla sua sola iniziativa, fonda il Centre for Social Ontology (CSO) durante un periodo di insegnamento all’École polytechnique fédérale de Lausanne (2011), che poi verrà trasferito all’Università di Grenoble, dove attualmente ha sede. Fra gli anni 1990 e la prima decade del nuovo secolo, Archer sviluppa le sue ricerche svolgendo un lavoro eccezionale, che, a mio avviso, può essere propriamente compreso coniugando tre parole-chiave: realismo critico, morfogenesi sociale e riflessività come conversazione interiore (caratteristica essenziale dell’umano). Un caposaldo di questi sviluppi è Being Human: The Problem of Agency (2000) (tradotto in italiano Essere umani. Il problema dell’agire, 2007), a cui fanno seguito le indagini sulla riflessività: Structure, Agency and the Internal Conversation (2003), Making our Way through the World (2007), The Reflexive Imperative in Late Modernity (2012) (i primi due sono stati tradotti in italiano dalla Erickson: La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale, 2006 e Riflessività umana e percorsi di vita. Come la soggettività umana influenza la mobilità sociale, 2009). In questo periodo, a mio avviso, emerge potentemente il tema/problema che è stato sempre centrale dell’opera di Archer: la rivendicazione dell’unicità della persona umana e però, insieme, il rifiuto di dare centralità all’individuo come tale. Una prospettiva non facile da sostenere e da indagare sociologicamente, per via di una certa sua apparente contraddittorietà interna, ma che costituisce, a mio parere, il cuore del suo messaggio. Il punto di svolta è l’anno 2000, quando Archer pubblica Being Human e si schiera contro l’idea di individuo iposocializzato proposta dalla teoria della scelta razionale (nel volume Rational Choice Theory: Resisting Colonisation), mentre nello stesso tempo rifiuta ogni approccio ipersocializzativo perché, se è vero che essere umani significa dipendere da un’interazione con il mondo reale, si può al contempo dimostrare che l’identità della singola persona umana si forma come autocoscienza, pensiero ed emozionalità, seppure in modo elementare, prima dell’acquisizione dell’identità sociale, e dunque non è un prodotto della società. Credo che Maggie abbia sempre combattuto la sua battaglia scientifica lavorando su questo punto. Lo ha fatto via via in modo più convincente, dapprima vedendo nella società soprattutto una realtà opprimente (vexatious) verso l’individuo, e dunque prendendo le parti dell’individuo, a rischio di sembrare individualista, per poi successivamente, nell’incontro con la sociologia relazionale, a partire dalla fine degli anni ‘90, cercare nella relazionalità l’antidoto all’individualismo (come dimostra il libro scritto a quattro mani con P. Donati The Relational Subject, 2015). Il suo leit motiv, l’insistenza sull’unicità della persona umana e nello stesso tempo sulla sua socialità, io credo, ha costituito il cuore del suo programma di ricerca negli anni 2013-2021, che si è concretizzato in due grandi progetti perseguiti con il gruppo di studiosi del CSO. Innanzitutto, il progetto sulla morfogenesi della società contemporanea, che ha prodotto cinque volumi editi da lei stessa in una serie della Springer (Social Morphogenesis, 2013; Late Modernity: Trajectories towards Morphogenic Society, 2014; Generative Mechanisms Transforming the Social Order, 2015; Morphogenesis and the Crisis of Normativity, 2016; Morphogenesis and Human Flourishing, 2017). E poi il progetto Post-Human Futures che ha prodotto quattro volumi fra il 2019 e il 2021, curati da vari componenti del CSO, ma sempre da lei animati (si veda la serie pubblicata da Routledge: Post-Human Institutions and Organisations: Confronting the Matrix, 2019; Realist Responses to Post-Human Society: Ex Machina, 2019; Human Enhancement, Artificial Intelligence and Social Theory, 2021; What is Essential to Being Human? Can AI Robots Not Share It?, 2021). Dai titoli si vede la persistente vocazione di Archer a indagare l’umano nel contesto delle nuove realtà tecnologiche (AI, robotica), a cui ella attribuiva una qualità positiva, quella di essere ‘amici’ delle persone ed essi stessi ‘umani’ se e nella misura in cui, coerentemente con le premesse ontologiche ed epistemologiche della sua sociologia, fossero dotati della capacità di agire in prima persona. Per terminare. Si potrebbero raccontare tanti aspetti della sua figura di studiosa e di donna dotata di una profonda umanità. La sua sociologia, che lei ha sempre caratterizzato come un antidoto all’empirismo inglese, è un esempio paradigmatico di come l’analisi empirica abbia bisogno di una robusta teoria sociale, basata su una ontologia sociale, se vuole essere aderente alla realtà, ma anche aperta ad una meta-teoria per cogliere, come direbbe Bhaskar, la meta-realtà. Una sociologia capace di indagare l’orizzontalità assieme alla verticalità del sociale, nell’apertura al trascendente (come si legge in Transcendence: Critical Realism and God, 2004, scritto assieme a Andrew Collier e Doug Porpora). Tralascio, per ragioni di spazio, tutte quelle informazioni sulla sua vita (cariche, premi, ecc.) che sono facilmente reperibili sul web. Preferisco dire qualcosa sulla sua figura umana, fra i vari ricordi che conservo dopo una collaborazione con lei durata oltre trent’anni. Maggie ha potuto esprimere un suo progetto così ambizioso perché aveva un carattere molto forte, indipendente, dimostrato fin da quando a 15 anni si batté contro gli armamenti nucleari e quando, raggiunta la maggiore età, si convertì al cattolicesimo, contravvenendo alla tradizione anglicana della famiglia, senza per questo venir meno all’amore per i genitori e soprattutto per le suore anglicane che l’avevano educata. Così è stata per tutta la vita, facendo scelte spesso controcorrente, perché aveva in testa quella che lei chiamava, con il suo grande amico Roy, una ‘utopia concreta’, cioè l’utopia di una società capace di far fiorire il soggetto umano minacciato dal pensiero postmodernista che ha dichiarato non solo la “morte di Dio”, ma anche la “morte dell’uomo”. Lo ha fatto rivendicando le potenzialità della persona umana come tale, assumendo che la persona formi il senso del Sé prima della sua socialità e oltre la società, sviluppando una autocoscienza che ha un fondamento pratico, non linguistico, e che procede attraverso quella “conversazione interiore” che per lei costituisce il fondamento della riflessività e della trascendenza della persona. È rimasta fedele al suo programma iniziale di mostrare che l’identità della persona nasce dal dialogo che essa è capace di intrattenere con sé stessa nel contesto delle identità che le sono attribuite dalle istituzioni (famiglia, società, stato, comunità religiose).

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