Razzismo e pandemia

di Carlo Pontorieri

All’inizio di questa dolorosa vicenda in Italia si era diffuso lo slogan: “il razzismo è un virus più pericoloso del Covid-19”.

L’espressione oggi suona retorica, con quasi 4 miliardi di persone in quarantena nel mondo e centinaia di migliaia di vittime. Tuttavia, visioni del mondo e mentalità, pregiudizi privati e politiche pubbliche, si sono variamente combinati tra loro, rivelandosi spesso alleati non secondari del contagio; in alcuni luoghi del mondo quelli decisivi.

Proviamo a ricapitolare.

Scoppia l’epidemia in Cina, il regime, dopo un periodo di tempo nel quale ritiene di dover reprimere ogni notizia, catalogandola tra le “attività antinazionali”, decide di accorgersene e con grande spiegamento di forza – economica, politica e di polizia – progressivamente lo argina.

Che cosa succede nel frattempo in Occidente?

Poco o niente.

Si osserva la Cina da lontano, e nessuno prende sul serio la minaccia. Il sottotesto dell’atteggiamento occidentale sembra un modello culturale ben consolidato. L’idea veicolata dai media in questa prima fase è infatti quella di un virus “locale” e da paese sottosviluppato, come Ebola, la Malaria o il Dengue: muoiono i gialli, forse moriranno i neri, non riguarda i bianchi. Forse ha agito anche il ricordo della recente epidemia della SARS (2002-2004) che, cominciata nella provincia cinese di Guangdong, prima di essere controllata e poi estinta, aveva provocato vittime solo in Asia, fatto salvo un focolaio in Canada.

Diverso è stato l’atteggiamento degli Stati asiatici, forse anche per l’esperienza di recenti epidemie. Anzi, Cina, Giappone e Corea del Sud, sia pure con modelli politico-istituzionali diversi, hanno fatto valere tutta la loro superiorità nell’high tech e nelle tecnologie digitali: presto l’Europa avrebbe scoperto di essere tecnologicamente arretrata (Come funziona il “modello” Corea del Sud contro il coronavirus, E. Buzzetti in agi.it; Coronavirus, il modello Corea del Sud raccontato dagli italiani di Seul, C. De Cesare in corriere.it; Il modello Corea del Sud: tamponi e controlli, L. Fraioli in Rep:Repubblica.it; et alia).

Passano i giorni e il virus verosimilmente comincia a circolare in Europa e anche in Italia: già a fine dicembre 2019 i Pronto Soccorso del Nord Italia sono congestionati e si verificano strane morti da polmonite virale a Milano, Piacenza, Lodi e Crema, ma nessuno pensa che possa essere il virus che ha fatto strage a Wuhan (Scienziati italiani indagano per verificare se coronavirus sia arrivato prima di gennaio E. Parodi e S. Aloisi, Reuters, 26 marzo 2020).

Anzi, le forze politiche sovraniste italiane montano una campagna contro i cinesi residenti in Italia, che perciò si rinchiudono in casa, negozi e ristoranti delle Chinatown italiane calano le saracinesche, e gli studenti dell’Università della Calabria, tornati in Italia dopo il Capodanno cinese, si mettono in quarantena volontaria nelle loro residenze, chiedendo al Rettore di attivare la locale ASL per la sorveglianza; ma nelle strade del Belpaese si moltiplicano i casi di violenze e gli atti di intolleranza contro i cinesi. Il leader dell’opposizione, Matteo Salvini, come in preda a un riflesso pavloviano, aggiunge l’ennesima polemica contro i barconi e i neri, mentre il governatore sovranista della Sicilia blocca i porti agli immigrati.

Invece il virus arriva in Italia ufficialmente grazie a un cittadino tedesco, e non via mare, ma attraverso un normale volo di linea, con scalo a Francoforte (pare).

L’epicentro italiano dell’epidemia così non è una Chinatown, un porto o un Centro di accoglienza per immigrati, ma Codogno, in provincia di Lodi: nell’ospedale locale il virus viene scoperto grazie a una brillante intuizione di una giovane rianimatrice, che di fronte a tante morti da polmonite atipica decide di eseguire il tampone.

Passano pochi giorni e l’epidemia invade il Lodigiano.

Ma il pregiudizio resiste. Molte tra le autorità scientifiche italiane avevano già diagnosticato il Covid-19 come “banale influenza”, che solo in paesi sottosviluppati può portare a esiti fatali.

Sono da ricordare in questo contesto le prese di posizione di due importanti medici dell’ospedale “Luigi Sacco – Polo universitario” di Milano (cfr. Coronavirus, ma è davvero peggio di un’influenza? – Corriere.it intervista al prof. Massimo Galli, 20 gennaio 2020; Coronavirus, lo sfogo della direttrice analisi del Sacco: È una follia, uccide di più l’influenza, Sole24ore, 24 febbraio 2020). Successivamente, di fronte al dilagare dell’epidemia e del numero dei decessi, si proverà a ipotizzare che il ceppo italiano fosse mutato (Coronavirus, Gismondo: “Forse è mutato, troppi morti in Lombardia”, ADN Kronos, 21 marzo 2020); oppure ci si distinguerà per un’aggressione televisiva a un giovane medico napoletano, colpevole di aver divulgato la sperimentazione di una terapia già utilizzata in Cina.

Tuttavia, il virus non fa troppo caso alle diagnosi accademico-sanitarie milanesi e infesta prima tutto il Nord Italia, poi prova a sfondare al Sud.

Medici e scienziati italiani, divenuti nel frattempo star mediatiche, a volte rivedono le diagnosi iniziali (Coronavirus, la virologa Ilaria Capua: «È una brutta influenza, meglio non andare in giro. Le Asl aiutino chi è in quarantena», Corriere adriatico, 24 febbraio 2020; Coronavirus, mea culpa di Galli: “Ho sbagliato, il virus circola da gennaio in Lombardia, Fanpage.it, 20 marzo 2020;), mentre l’Europa e l’America, con l’Italia contagiata, s’interrogano.

E così, dopo il pregiudizio anti-cinese, spunta quello anti-italiano.

In una Francia ancora non in quarantena, “Groland Le Zapoï”, un programma satirico della tv francese Canal+ manda in onda uno sketch in cui un pizzaiolo italiano sforna una pizza, significativamente chiamata “Corona”, tossendoci su. Il video è del 3 marzo: esattamente 2 settimane dopo, il 17 marzo, è imposto il lockdown anche in Francia.

Nel frattempo però era ritornato il refrain: ma possibile che un virus para-influenzale possa mettere sotto scacco pure noi superiori popoli bianchi del Nord (stavolta) Europa e America?

In questo atteggiamento si distinguono il premier inglese Boris Johnson, quello della Brexit e delle nostalgie imperiali, e il presidente americano Donald Trump, che notoriamente gode delle simpatie dei suprematisti bianchi.

Quest’ultimo ha tra l’altro sostenuto, facendo valere la sua esperienza di miliardario self-made man, di non aver mai dato troppa importanza nella sua vita al parere dei medici (cfr. Trump’s telling comment about doctors and coronavirus, Washington Post, 24 marzo).

Oggi così gli Stati Uniti sono il primo paese per numero di contagiati e l’immunologo italo-americano Anthony Fauci, che in un’intervista alla CNN aveva invece affermato che il numero di decessi per coronavirus avrebbe potuto superare di dieci volte quello di una “banale influenza” (US virus deaths could reach 200,000, The Economic Times, 29 marzo 2020) gira con la scorta, avendo subito minacce da gruppi dell’estrema destra americana.

Il Primo ministro britannico Boris Johnson invece, che ha come modello Winston Churchill (ma di Churchill non sembra avere in comune neppure taglio e colore dei capelli), prova a replicare il discorso sulle “lacrime e sangue”, chiedendo agli inglesi di “abituarsi a perdere anzitempo i propri cari”, sostenendo di puntare a un’improbabile immunità di gregge, che renderebbe i sudditi di Sua Maestà l’unico popolo del mondo libero dal virus.

L’implicito del discorso appare una doppia declinazione di superiorità: a differenza di altri popoli, gli inglesi possono pagare quel prezzo di sangue, che riconsegnerà al Regno Unito il suo naturale primato nel mondo. Il clima nostalgico imperiale dell’epoca della Brexit si espande fino alle politiche sanitarie.

E così in Gran Bretagna, dove con una clamorosa inversione a U le misure di contenimento alla fine sono state prese, ma in ritardo di due settimane rispetto a Francia e Spagna, sono finiti contagiati sia lo stesso premier che l’erede al trono: quest’ultimo è nel frattempo guarito, ma i numeri dei contagi sono oggi da capogiro (cfr. Absolutely wrong’: how UK’s coronavirus test strategy unravelled, S. Boseley, The Guardian, 1 aprile 2020).

Anche in America latina si può riscontrare questo rapporto tra rifiuto delle politiche di contenimento dell’epidemia e visioni sovraniste.

In Brasile il presidente Jair Bolsonaro, noto per varie affermazioni razziste contro gli indios (la più celebre è del 1998: “la cavalleria brasiliana fu davvero incapace. Più capace fu invece la cavalleria nordamericana, che decimò i suoi indiani in passato e oggi non c’è questo problema”), è anche colui che ha definito il Covid-19 una “gripezinha”, una febbriciattola, parlando altresì di “nevrosi” e “isteria collettiva” (Jair Bolsonaro na crise do coronavírus, Folha de S. Paulo, 26 marzo 2020). Criticando alcune autorità locali che invece hanno imposto misure restrittive, ha postato due video su Twitter, dove passeggiando tra le vie di Brasilia concionava i passanti riprendendo la dottrina inglese della “Herd Immunity”, affermando che anche il Brasile «sarà immune quando il 60-70 per cento sarà infettato»; ma aggiungendoci di suo che esisterebbe già un farmaco attivo contro il coronavirus.

Twitter ha cancellato entrambi questi post, per violazione delle regole sulle notizie in materia di Covid-19.  

In questi ultimi giorni, di fronte al dilagare del contagio e del numero delle vittime, pur minacciando di abrogare tutti gli atti dei governatori locali in contrasto con le sue direttive “con un solo tratto di penna” (Jair Bolsonaro pode abrir comércio e escolas ‘em uma canetada’?, D. Alveres, Huffpostbrasil.com, 4 aprile 2020), il presidente brasiliano ha affermato, con un revirement molto british, che il coronavirus rappresenta “la più grande sfida per questa generazione”. In ogni caso, l’Associazione brasiliana giuristi per la democrazia (ABJD) lo ha denunciato al Tribunale penale internazionale dell’Aia per la sua “irresponsabile” risposta alla pandemia: Bolsonaro era già stato denunciato alla stessa Corte per crimini ambientali in Amazzonia e violazioni dei diritti delle popolazioni indigene.

In un infortunio con Twitter è scivolato anche Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, noto per la sua dottrina della “tolleranza zero” in materia di criminalità urbana, oggi consigliere di Trump. Giuliani aveva propalato, come Bolsonaro, la notizia dell’esistenza di un farmaco “al 100% sicuro contro il coronavirus”. E si visto cancellare il tweet e bloccare pure il profilo (Perché se Twitter censura Bolsonaro e Giuliani è un’ottima notizia, E. Cau, Il Foglio, 31 marzo 2020).

Nel dipanarsi degli eventi, l’epidemia sembra perciò avere avuto un andamento quasi da piaga biblica, in una sorta di sistematico contrappasso. L’ormai consolidato conflitto nelle società industriali tra salute delle persone ed economia, ma anche dispositivi della mentalità e costrutti di lunga durata nella percezione del sé e dell’altro nelle varie forme dell’autorappresentazione dell’Occidente – amplificati dalle prese di posizione delle leadership sovraniste, ma ben presenti nelle culture non solo politiche dei paesi investiti dal virus, come si è visto – sembrano perciò aver funzionato in questa parte di mondo come facilitatori, se non come detonatori, della propagazione del contagio, anche per il profilo della mancata allerta sociale.

La pandemia è spesso avanzata su un campo ben arato da pretese superiorità e conseguenti perniciose scelte politico-sanitarie.

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