Un ricordo personale di Michele La Rosa

Michele La Rosa è stata una persona eccezionale. La passione, l’abnegazione, la gentilezza che dimostrava nel lavoro accademico ed extraaccademico sono solo alcune delle sue più preziose qualità. Chi l’ha conosciuto sa bene di cosa sto parlando, ce ne se accorgeva subito, bastava osservarlo e ascoltarlo. Era un lavoratore di una serietà e di una tenacia impareggiabili. Aveva un senso delle istituzioni e della comunità che personalmente non ho mai riscontrato in nessun’altra persona. Sapeva poi essere anche severo, quando serviva, ma riusciva a infondere mentre si lavorava, chissà come, anche una certa leggerezza. Non era mai arrendevole, non sopportava le ingiustizie che vedeva accadere. Aveva l’energia di un vulcano e la capacità organizzativa di un grande manager. Sapeva stemperare le tensioni e trovare equilibrio tra entusiasmo e cautela, tra scherzo e disciplina. Un’altra delle sue qualità più evidenti era la sua incredibile capacità di tessere relazioni, relazioni che trasformava in pragmatiche reti di ricerca, a volte originali nelle sue caratteristiche, a volte inaspettate per diramazioni e ampiezza. In queste reti stringeva poi grandi rapporti di amicizia. Era uomo di fede, politicamente vicino al cattolicesimo riformista bolognese e per questo testimone di una laicità radicale. Per me e per noi che abbiamo avuto la fortuna di lavorare con lui fin da giovanissimi è stato come un secondo padre. Una buona paternità si riconosce da alcune cose: in primo luogo dalla filiazione, cioè dalla capacità del padre di lasciare un’eredità che chi la riceve può spendere come meglio crede. In altre parole, un maestro si riconosce attraverso la capacità di testimoniare fiducia e desiderio ai suoi allievi. Ognuno degli allievi di Michele La Rosa hanno d’altra parte sviluppato, non a caso, un modo diverso di abitare la sociologia, un modo del tutto singolare e personale di vivere l’Università e la ricerca, tutti però condividiamo e siamo uniti dal debito simbolico nei suoi confronti.

Il debito che sento nei confronti di Michele La Rosa è, personalmente, enorme. Gli devo moltissimo. Lo stesso però non è mai opprimente, non è mai un peso, è piuttosto uno sgabello su cui appoggiarsi. Il Prof., come tutti noi lo chiamavamo anche per accondiscendere alla sua volontà di mantenere sempre un certo riserbo professionale, sapeva quanto e come metterci al lavoro. D’altra parte, lui il lavoro lo conosceva davvero molto bene. Si era infatti formato, lavorando per poter terminare gli studi a Bologna, prima come impiegato e poi come dirigente alla SIP (la vecchia società nazionale delle telecomunicazioni). Qui aveva imparato a conoscere il lavoro nelle sue determinazioni organizzative e sociali più nascoste e recondite. Quando Achille Ardigò lo convinse a intraprendere la carriera accademica lo fece, credo di poter dire, senza mai perdere di vista il sapore e il sapere pratico di quei luoghi di formazione giovanile. A Bologna fu poi protagonista, insieme ad altri, della costruzione della comunità sociologica che Ardigò aveva insieme a loro progettato. Fu una stagione di incredibile entusiasmo di cui ancora è possibile a Palazzo Hercolani sentirne l’eco. Entrò a far parte, come associato, del primo direttivo dell’AIS quando nel 1982 l’associazione si fondò e iniziò le sue attività. L’attuale Dipartimento dove a Bologna si concentrano la maggior parte dei sociologi locali e dove Michele La Rosa ha svolto più mandati da direttore, è diventato importante anche grazie alle sue straordinarie capacità di gestione delle risorse economiche e scientifiche. Francamente se questo Dipartimento esiste ancora credo sia anche merito suo. Inoltre, ha fondato una delle riviste più importanti (che tanto ha collaborato in passato con la vecchia sezione Elo di AIS) dell’area socio-lavorista. La rivista Sociologia del lavoro è stata una delle sue (tra le tantissime) creature editoriali meglio riuscita. Non la sola certamente, ma forse quella cui lui era più legato. Fino a quando ha potuto ne ha infatti sostenuto e supportato la sua pubblicazione e questa rivista è una delle più importanti eredità materiali che ha lasciato alla nostra comunità scientifica.

Personalmente poi ho avuto un grande privilegio rispetto ad altri suoi allievi (che sicuramente ne hanno ricevuti di altro tipo). Condividevo con lui la città di formazione. Siamo entrambi riminesi. Quando d’estate si trasferiva a Rimini per passare i mesi più caldi dell’anno, davvero insopportabili a Bologna, avevo spesso l’occasione e il piacere di vederlo al di fuori delle convenzioni accademiche. Vestito maggiormente informale, con i pantaloni corti, cosa impensabile a Bologna (dove si presentava sempre elegantissimo), e potevo entrare in contatto con alcune delle sue passioni da lui coltivate nel tempo libero. Una cosa che mi ha sempre colpito e che ammiravo molto in lui era la sua passione per i fumetti. Era un autentico esperto e una delle sue passioni preferite era scovare piccole librerie dove rintracciare opere rare e difficili da reperire in quanto fuori catalogo. Comprare fumetti e libri di ogni genere e disciplina era una delle sue attività di svago preferite. Non amava molto la spiaggia riminese perché troppo affollata e rumorosa e per lo più in contraddizione con la pace necessaria per divorare i suoi libri e i suoi fumetti. Aveva in testa una mappa precisa ma tutta sua della città adriatica, certo di molto cambiata rispetto a quando era stato ragazzo e aveva frequentato qui il liceo, ma ancora densa di piccoli negozi cortesi e di botteghe a volte strampalate e improvvisate. Amava molto il centro di Rimini e aveva stretto moltissime amicizie con molti dei negozianti locali. Spesso a fare la spesa andava in bicicletta. Sapere che non mi sarà più possibile incontrarlo, anche per caso, a cavallo delle sue due ruote è per me davvero molto, molto doloroso. E però ogni volta che deciderò di passeggiare per il centro di Rimini, magari il sabato mattina, seppur solo in un’istantanea, intima ed effimera allucinazione, sono certo che lo incontrerò di nuovo.

Federico Chicchi

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