di Angelo Romeo – Professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Guglielmo Marconi di Roma
Il 13 novembre ci ha lasciati Franco Ferrarotti, professore emerito, vincitore del primo concorso per la cattedra di Sociologia bandito nel 1961 all’Università La Sapienza di Roma. Figura di spicco della cultura contemporanea e padre della sociologia italiana, è stato e rimarrà il punto di riferimento per generazioni di studiose e studiosi della disciplina.
Quando mi è stato proposto di scrivere un ricordo su Ferrarotti, mi sono chiesto come poter ricordare un uomo, un pensatore di questa levatura e rivedendo le sue numerosissime pubblicazioni, ricerche, riconoscimenti, ho pensato di partire dai nostri incontri. Da quegli incontri che per me sono oggi un tesoro di cui mi sento privilegiato, ho tratto in molte occasioni ispirazione per nuovi lavori, approfondimenti, ricerche sul campo, che Ferrarotti da sempre mi spronò a realizzare. Ho conosciuto Ferrarotti negli anni in cui ero studente universitario, lui in Sapienza era uno di quei nomi che hanno fatto la storia della facoltà di Sociologia e poi Scienze della comunicazione.
La sua voce, le sue lezioni, le aule strapiene di via Salaria, sono ormai memoria storica di un grande maestro che ha dedicato, con straordinarie intuizioni, tutta la sua vita alla nostra disciplina. Negli anni dopo la laurea e poi in seguito con il dottorato, in tante occasioni ho avuto modo di rivederlo, chiedergli consigli scientifici e il suo contributo era sempre denso di perle di saggezza, che stimolavano la curiosità, l’approfondimento in modo del tutto naturale e prezioso.
Le conversazioni più belle, quelle che porterò sempre dentro di me sono frutto degli incontri nel suo studio, soprattutto negli ultimi anni. Il copione era sempre lo stesso, mi veniva ad accogliere alla porta, come sempre preso da numerosissimi lavori, già alle prime ore del mattino. Impeccabile come sempre con giacca e cravatta. Spesso l’incipit era “oggi ho pochissimo tempo da dedicarti perché sto concludendo un libro..”, ma in realtà i nostri incontri duravano quasi tutta la mattina. Il tempo in sua compagnia volava e oggi, posso dire, che assistevo a vere lectio magistralis personali. Attenta lucidità del tempo che mutava, prontezza dell’università di oggi, di cui rilevava criticità e punti di forza, non come un professore fuori ruolo, ma con quella capacità di chi sembrava fosse stato il giorno prima in aula o impegnato in attività accademiche. Memoria storica di un intellettuale che citando gli incontri con Adriano Olivetti, Nicola Abbagnano, con cui fondò i “Quaderni di sociologia,” Cesare Pavese, ti proiettava dentro una dimensione, che oggi, epoca fortemente condizionata dalla tecnologia, sembrava annullare tutto il resto. Ci si sentiva dinnanzi a lui sempre più piccoli, non perché lui non mettesse a proprio agio, anzi lo si era sempre, ma perché in quelle conversazioni del tutto private, ci si rendeva conto di essere dinnanzi a un gigante della sociologia, un visionario, un uomo che recitava con facilità pezzi interi della Divina Commedia, parlando latino e greco con una naturalezza, che ancora oggi mi lascia senza parole. Un uomo, prima ancora che uno studioso che sapeva ascoltare, poi quando gli ponevi una domanda, la sua risposta aveva qualcosa che non avresti ritrovato sui manuali, nulla di ovvio ma una ricerca accurata di quel sapere analitico e critico al tempo stesso. Entravi nel suo studio passando tra montagne di libri accatastati, che con il gesto del maestro, ti regalava e a cui seguiva la frase “poi dimmi come ti sembra..” Lo studioso che ci ha consentito di studiare attraverso la sua traduzione “La Teoria della classe agiata” di T. Veblen, (Einaudi, 1949), Durkheim, Weber, apre le porte della sua biblioteca, del suo mondo in cui in punta di piedi in molti entravamo.
Non dimenticherò mai il nostro incontro di circa dieci anni fa, quando gli ho voluto parlare di una mia ricerca ai Quartieri spagnoli di Napoli. Nei suoi occhi l’entusiasmo che ti sprona a fare ricerche sul campo di questo tipo. “Quando vai nei vasci, “cerca di conoscere chi vi abita, tu sei un sociologo, non ti fermare alle apparenze.” E oggi, rileggendo quella prefazione al volume, che per me è stato un regalo, ritrovo la straordinaria persona che ha formato generazioni di studenti, che ha reso forte il metodo qualitativo, a cui sarò sempre grato. “Il libro di Romeo ci aiuta a capire che gli “oggetti” di una ricerca sociologica sul campo ne sono in realtà i “soggetti”. Bisogna dare loro la parola. Devono parlare in prima persona. Le storie di vita, in questo senso, lungi dal porsi come un sottoprodotto delle cronache giornalistiche, costituiscono la materia prima per comprendere la natura del disagio sociale e quindi, eventualmente, intervenire. I problemi dell’individuo non si esauriscono nei termini, psicologici, di una questione individuale. Chiamano in causa la società globale. Battono alle porte delle istituzioni plumbee. Gridano i loro bisogni alle burocrazie letargiche, che hanno quietamente operato lo “spostamento dei fini”, dimenticando gli scopi all’origine della loro fondazione e ponendosi come fini a se stesse, per la perpetuazione di privilegi ormai percepiti come inammissibili.”[1]
In questo suo pensiero si ritrova la funzione dell’ascolto, di quella sociologia che è sempre stata per Ferrarotti la “scienza di cui ha bisogno la società, organo di autoascolto della società.” Attento allo sviluppo della tecnologia,[2] che ha analizzato talvolta in maniera fortemente critica, Franco Ferrarotti ci riporta sempre alla centralità della persona, alla bellezza delle relazioni, di quel confronto di cui una società, che non voglia essere succube della tecnica, non può fare a meno. La sua analisi non ha mai avuto lo scopo di demolire la funzionalità della tecnica, al contrario di guardarne la positività senza tuttavia esserne schiavi. In una brillante intervista a Rai Cultura[3], afferma a tal proposito: “la soluzione non è negare il progresso, ma avere il senso del limite, resistendo all’eccesso di informazioni e di stimoli che impedisce soprattutto ai giovani di fissare il proprio progetto di vita e che conduce alla disumanizzazione. Oggi c’è una prevalenza della perfezione della tecnica sull’imperfezione umana, che in quanto imperfezione è la spia preziosa dell’umanità essenziale, che è imprevedibilità, sorpresa, stupefazione (…) il grande problema di oggi è che la tecnica non è governata, dobbiamo scoprire, governando la tecnica, in nome dell’interesse pubblico, l’umanità degli esseri umani.”
Un’analisi di grande profondità che nei prossimi anni dovremo rileggere più volte e cercare di attualizzare per non incorrere nel rischio di un sapere sempre più meccanico.
Nel suo cuore lo studio delle realtà urbane, della marginalità, del vissuto biografico, di quella “identità figlia delle sue esperienze.” Come non ricordare i testi che ancora oggi sono punti di riferimento per chi decide di studiare Roma, le periferie e altri contesti: Roma da capitale a periferia (Laterza, 1970); Vite di baraccati. Contributo alla sociologia della marginalità, (Liguori, 1974); Roma madre matrigna, (Laterza, 1991); Roma Caput Mundi, (Gangemi, 2015); Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana, (Armando, 2018).
“Ti do un consiglio,” mi diceva, “cerca di entrare nelle case delle persone che farai parlare, anzi quando vuoi fare una ricerca in periferia vai con l’autobus, solo facendo tutto il percorso che ti condurrà al campo della tua ricerca, vedrai chi salirà e scenderà. In questo modo avrai modo di capire chi abita quel quartiere in prima battuta. Poi, osserva …osserva sempre con attenzione tutti i particolari, se entri negli appartamenti, nota le condizioni degli immobili, l’arredamento. Una volta, tanti anni fa osservavo che alcune persone che mi trovavo poi a intervistare bollivano il latte scaduto, questo significava che non potevano permettersi il latte e bollivano quello che avevano. Dai piccoli accorgimenti puoi già costruire la storia dei tuoi intervistati, iniziare a tratteggiare la loro vita, le loro difficoltà. Ricordalo, osserva sempre.”
In questi racconti c’è la base della sociologia, l’osservazione attenta e silenziosa prima di andare a fare ricerca, l’inserimento graduale e l’ascolto. Quanta verità, quanti strumenti e consigli frutto dell’esperienza di uno studioso che ha ben compreso e trasmesso alla nostra disciplina l’importanza delle parole, dei gesti, dei rituali, di quei comportamenti sociali che emergono da biografie, storie di vita e da tutti quei supporti come fotografie, filmati ecc. Ma Franco Ferrarotti non ci lascerà mai, vivrà sempre nei suoi scritti e nei ricordi accademici e non solo di chi lo ha conosciuto. Ci stupiva con la sua capacità oratoria che incantava platee tra battute ironiche e sapienti insegnamenti. Ci stupisce ancora oggi con l’ultimo libro che lui stesso ha consegnato alla stampa, “Lettera a un giovane sociologo” (Solfanelli, 2024) il cui titolo sembra un vero testamento scientifico.
Ferrarotti ci lascia una grande eredità, spetterà a tutti noi custodirla per il bene e il futuro della nostra disciplina.
Concludo questo mio breve ricordo di FF, (così veniva conosciuto tra i colleghi e gli allievi il prof. Franco Ferrarotti), con una citazione frutto di un dialogo tra M. I. Macioti[4] e F. Ferrarotti in un testo che acclude le sue lezioni negli anni 1987-1988.
“Il professore universitario, a mio parere, non insegna, non imbottisce cervelli… Il professore professa… Che cosa? Le sue idee, se ne ha. Per questo le lezioni, tre la settimana, non può tenerle in giorni consecutivi. Deve avere un giorno di tempo per prepararsi, andare in biblioteca… Io, per 50 anni, ho tenuto le mie lezioni il lunedì, mercoledì, venerdì… Il professore universitario non insegna. Solleva problemi. Stimola. Coltiva e fa crescere dubbi, nuove vite, inedite prospettive.”
Grazie di tutto FF.
Riferimenti bibliografici
F. Ferrarotti, Un popolo di frenetici informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli, 2012;
F. Ferrarotti, Prefazione, in A. Romeo, Socialmente pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, Milano, Mimesis, 2014;
M. I. Macioti, (a cura di) Franco Ferrarotti. Lezioni dai corsi del 1987 e 1988, Napoli, Guida Ed. 2018
[1] F. Ferrarotti, Prefazione, in A. Romeo, Socialmente pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, Milano, Mimesis, 2014, p. 10.
[2] Cfr. F. Ferrarotti, Un popolo di frenetici informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli, 2012;
[3] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2020/07/Governare-la-tecnica–50d4ca59-31c5-4530-a103-86244bbe1109.html
[4] M. I. Macioti, (a cura di) Franco Ferrarotti. Lezioni dai corsi del 1987 e 1988, Napoli, Guida Ed. 2018, p. 23.